Se l’unica ambizione della politica consistesse semplicemente nel risolvere problemi concreti, già dati – come vorrebbero darci a intendere gli instancabili sostenitori di governi tecnici per tutte le stagioni – la discussione sulle unioni civili non dovrebbe nemmeno cominciare. In sé e per sé, la questione è talmente semplice da non meritare neanche la definizione di problema politico, almeno in una società moderna. Si tratterebbe soltanto di applicare il principio costituzionale dell’uguaglianza di tutti i cittadini davanti alla legge, senza discriminazioni. Il che significa anche pieno diritto al matrimonio civile e all’adozione, per i cittadini omosessuali come per gli ebrei, per i neri come per i comunisti. Per tutti. Fine della discussione.
L’obiezione secondo cui nel caso delle adozioni occorre tutelare prima di tutto il diritto del soggetto più debole, cioè del bambino, dinanzi ai pregiudizi della società, che saranno pure ingiustificati finché si vuole, ma sono un fatto – tale obiezione fondata, ovviamente, sui sacri fatti – risulta a ben vedere assai poco fondata. Innanzi tutto in punto di fatto: il diritto all’adozione per gli omosessuali esiste in molti paesi, non solo in Spagna, e da diversi anni. Non risulta alcuna casistica di particolari sofferenze psicologiche o sociali per i bambini adottati. Il fatto cui si fa appello, come si vede, manca. E poi, seguendo questo modo di ragionare, dinanzi al diffondersi dell’antisemitismo di cui tanto si discute, bisognerebbe concludere che per difendere la fragile psiche dei nostri pargoli, sulla base dello stesso principio, dovremmo vietare le adozioni anche agli ebrei.
La Chiesa parla alla società italiana e alla politica (e ad alcuni politici parla in particolare il cardinale Camillo Ruini, con una certa dimestichezza), chiedendo di esserne ascoltata. E se questo è legittimo e naturale – anzi, diremmo noi, persino auspicabile – altrettanto legittimo e naturale (e auspicabile) è che la politica risponda. E risponda per le rime, quando la posizione espressa dalla Chiesa è in così stridente contrasto con i principi costitutivi dello stato di diritto, come il principio dell’uguaglianza di tutti i cittadini davanti alla legge. Un principio che non ammette obiezioni, eccezioni o deroghe. Ammettere una sola eccezione, infatti, significherebbe rovesciarne il significato: il principio è l’uguaglianza di tutti, non l’uguaglianza di alcuni (fossero pure tutti meno uno). Ciò non toglie, naturalmente, che quel principio, sancito in Costituzione, possa essere modificato o anche cancellato come ogni altro, promuovendo una riforma che affermi – per esempio – l’uguaglianza di tutti i cittadini davanti alla legge, tranne gli omosessuali, almeno per quanto riguarda matrimonio e adozioni. Si raccolgano le firme e il consenso politico necessario, si segua la regolare procedura prevista dall’articolo 138 della Costituzione, e vinca il migliore. Tutto il resto è un gioco delle tre carte, in cui si pretende di rispettare un principio a parole, ma violandolo nei fatti, con giustificazioni di ogni genere, che nulla possono però contro l’evidenza: o tutti i cittadini sono uguali davanti alla legge o non lo sono.
Contro l’evidenza, paradossalmente, ci si appella dunque alla forza dei fatti. Alla tradizione – con l’articolo determinativo, come se fosse una, ben identificata e coerente – quasi fosse custodita in qualche museo, accanto al metro campione di Parigi, affinché tutti possano utilizzarla come unità di misura: la famiglia tradizionale, le radici cristiane, la tradizione cattolica del nostro popolo. Eppure nel corso dei millenni usi e costumi degli uomini, e dei cattolici, e della Chiesa – anche in tema di rapporti familiari – sono costantemente mutati. Dove si fissa dunque il confine passato il quale una simile accozzaglia delle più disparate usanze e abitudini si cristallizza d’un tratto in codice inappellabile? Ancora non molti decenni or sono, lo stesso codice penale della repubblica italiana nel caso del delitto d’onore prevedeva pene inferiori a quelle previste per il semplice omicidio. Per quale ragione, quando è stata abolita una simile attenuante, nessuno si è levato in difesa della tradizione e della famiglia, tanto platealmente oltraggiate?
Se la politica consistesse semplicemente nel risolvere problemi concreti, già dati, la questione delle unioni civili non si porrebbe nemmeno. E infatti non si dovrebbe porre. Ma nell’Italia di oggi, purtroppo, si pone. La soluzione politica trovata dai ministri Rosy Bindi e Barbara Pollastrini offre ai cittadini omosessuali, oggi ingiustamente discriminati, maggiori diritti. Li rende un po’ più uguali agli altri, sebbene non del tutto. E tutto se ne può dire, pertanto, ma non si può negare che sia un passo avanti rispetto allo stato di cose attuale. E non è poco.
Un discorso a parte meriterebbero quei sostenitori della legge che credendosi furbi, per evitare la presunta impopolarità di una battaglia per i diritti degli omosessuali (e sia detto tra parentesi: speriamo non siano ancora in circolazione, simili difensori delle minoranze, quando dovesse manifestarsi davvero una nuova ondata di antisemitismo in Europa), sostengono che tale provvedimento è pensato innanzi tutto per le tante coppie di fatto composte da cittadini eterosessuali che semplicemente non vogliono sposarsi, ma vogliono vedersi riconosciuti i diritti delle coppie sposate, almeno in parte. Una volta fissati diritti e doveri delle coppie di fatto riconosciute dal diritto pubblico, però, cosa ne faremo delle coppie di fatto che non volessero iscriversi all’apposito registro? Non si porrebbe di nuovo lo stesso problema? Non potrebbero anch’esse, legittimamente, lamentare la discriminazione rispetto alle coppie di fatto regolarmente riconosciute?
Tutti i cittadini sono uguali davanti alla legge. Per vedersi riconoscere, come coppie, i diritti e i doveri di tutte le coppie legate dal vincolo del matrimonio, tutti i cittadini che lo desiderino non hanno da fare altro che sposarsi, avendone tutti, indiscriminatamente, piena facoltà. Tutti tranne gli omosessuali: questo è il problema. Ed è a questo problema che risponde, pragmaticamente, e confrontandosi con i problemi della politica – cioè con le condizioni date – il disegno di legge Bindi-Pollastrini. Se ne discuta il merito. Ma se in nome della difesa della famiglia e del diritto naturale e della civiltà cristiana si vuole sancire il principio della discriminazione dei cittadini omosessuali, che almeno si abbia il coraggio di dirlo apertamente. Del resto, stando alla Bibbia, ci pare che non manchino buoni argomenti per aggiungere molte altre categorie alla lista di coloro per i quali si dovrebbe derogare dal principio di non discriminazione. A cominciare dalle donne (se famiglia tradizionale ha da essere, che almeno si rispetti la tradizione).
Il disegno di legge Bindi-Pollastrini ha un solo aspetto, a nostro avviso, davvero inaccettabile. Quella procedura grottesca, surreale e umiliante che consiste nel dover mandare una raccomandata con ricevuta di ritorno a casa propria, al proprio convivente, per comunicargli l’avvenuta registrazione. Perché altrimenti, con una semplice dichiarazione congiunta, si sarebbe suscitato lo spettro di una cerimonia “para-matrimoniale”. Un’autentica follia burocratica che placherà forse l’inestinguibile carità cristiana di una senatrice Binetti, e magari persino l’inappagabile libido serviendi di Francesco Rutelli, ma che dovrebbe risultare insopportabile a qualunque essere umano.
La politica è politica, si capisce. Le condizioni date sono quelle che sono. Ma c’è un limite. Del resto, anche così com’è, non ci pare che il disegno di legge abbia ricevuto un’accoglienza entusiastica da parte della Chiesa.
La vergognosa norma della raccomandata va cancellata in parlamento. E che i difensori della famiglia e del principio di discriminazione si organizzino di conseguenza, visto che si ritengono ancora rappresentanti della maggioranza del popolo italiano, sin da quello sciagurato referendum sulla fecondazione. Il parlamento approvi una legge seria e decente. I difensori della famiglia tradizionale, qualunque cosa sia la famiglia tradizionale, promuovano pure un referendum abrogativo. E vediamo chi vince, stavolta.