Si dice che il trascorrere del tempo faccia guadagnare saggezza e serenità. Si dice anche che la pratica del buddismo conduca verso un fatalistico disinteresse per gli accidenti mondani. Roberto Baggio, che domenica ha compiuto quarant’anni, non sembra giovarsi né della saggezza dell’età né della mistica serenità della religione. Intervistato dal Tg1 ha mostrato di non essersi ancora fatto una ragione della mancata convocazione ai mondiali del 2002, e di attribuire il fatto ad una macchinazione ai suoi danni. Un primo segnale – addirittura – dello scandalo manifestatosi la scorsa estate. “Mi ha fatto pensare molto, soprattutto al fatto che ai Mondiali del 2002 non ci sono andato e chissà perché… Questa domanda mi viene in testa molto spesso”. Queste le parole raccolte da Donatella Scarnati e riportate sabato mattina da tutti i quotidiani. La risposta in realtà è un ovvio ma irrispettoso bagno di realtà. Baggio non venne convocato perché era un giocatore sfibrato, di ben trentacinque anni, buono giusto per il Brescia, reduce dall’ennesimo infortunio. Inoltre convocare Baggio significava prendersi una grana sicura, perché immediatamente sarebbe iniziato il tormentone gioca o non gioca, e se sì o se no, perché. Tormentone già sperimentato quattro anni prima in Francia.
Chiariamo bene un punto. Roberto Baggio è stato, e di gran lunga, il calciatore italiano più talentuoso degli ultimi vent’anni almeno. Un fenomeno di abilità e precisione, una grande visione di gioco. Un autentico pifferaio magico che incantava pubblico e critica. Oltre duecento gol in serie A, meglio di lui solo Piola, Nordahl, Meazza e Altafini, e un Pallone d’oro a scintillare in salotto. Eppure Baggio è anche il giocatore scaricato senza troppi rimpianti da Juventus, Milan e Inter, i tre grandi club nei quali ha militato. E’ il giocatore che ha dato il meglio di sé in provincia. E’ anche, forse soprattutto, quello del rigore di Pasadena, nella finale dei mondiali del ’94, finito altissimo sopra la traversa.
Gli americani hanno una parola per descrivere questo tipo di sportivi: underachiever. Atleti che non riescono, per le ragioni più varie, a mettere completamente a frutto il proprio immenso talento. Baggio si rende probabilmente conto di essere stato un underachiever – dire un perdente di successo sarebbe esagerato e ingiusto – e se ne rammarica ancora, come se ne rammaricava nel 2002, cercando disperatamente l’occasione della vita al quarto mondiale, a un’età alla quale la maggior parte dei calciatori pensa al ritiro o si è già ritirata.
Nella stessa intervista in cui adombra il complotto ai suoi danni il campione di Caldogno fa un’affermazione interessante. Di tutta la sua carriera cancellerebbe un solo momento, il rigore nella finale del mondiale americano, il che è umanamente molto comprensibile, ma è come dire che il generale Cadorna, nella sua carriera militare, cancellerebbe solo Caporetto. L’immagine di quel rigore, non parato, non sul palo, non di poco a lato, ma tirato completamente fuori dallo specchio, e più ancora la reazione di Baggio al proprio errore – fermo sul dischetto, col capo chino e le mani sui fianchi, nessuna rabbia manifesta e nessuna disperazione, campione anaffettivo – è l’immagine che ricorda e definisce l’intero mondiale azzurro, ed è l’immagine che segna meglio di ogni altra il limite della carriera di Roberto Baggio. Quel limite Baggio non lo ha mai saputo superare. Per questo non sono mai esistiti un Milan di Baggio, un’Inter di Baggio, forse neppure una Juventus di Baggio e una Nazionale di Baggio, ma solo una Fiorentina, un Bologna e un Brescia di Baggio. Perché nei momenti buoni era sì Raffaello il genio del Rinascimento – per usare un’espressione dell’avvocato Agnelli – ma quando il gioco si faceva duro, allora Pasadena, allora “coniglio bagnato”, allora non un trascinatore di uomini in campo, ma una gattamorta col pallone tra i piedi.
Roberto Baggio è stato un magnifico campione, uno straordinario talento, un calciatore indubbiamente oppresso dagli infortuni e con ogni probabilità un’ottima persona. Semplicemente non gli è mai riuscito di essere un leader, e per uno bravo come lui questo sembrava strano. Se ne faccia una ragione, e si goda con serenità i risultati di una carriera comunque straordinaria.
E poi fare il leader è un lavoraccio, rischioso e avaro di soddisfazioni, che non gli sarebbe piaciuto per niente. Perfino molti di quelli bravi – Ettore, Annibale, Napoleone – hanno fatto una brutta fine. E non hanno mai dato la colpa a un complotto, agli infortuni, al fratello scemo, all’occhio mancante, al mal di stomaco.