Sabato la manifestazione contro l’allargamento della base americana di Vicenza si è svolta senza incidenti, nonostante l’allarme lanciato alla vigilia dal ministro degli Interni, dopo la scoperta di alcuni nuclei brigatisti. Metastasi di un estremismo politico che in questi anni è cresciuto come un tumore anche dentro la Cgil, oltre che nel sindacalismo di base e nei centri sociali. Il dibattito che ha seguito l’ennesima, effimera presa di coscienza del problema – il perdurare e l’estendersi di quel tumore – ha mostrato però, ancora una volta, la drammatica inadeguatezza delle classi dirigenti italiane dinanzi alla crisi. Una crisi che noi stessi, finora, forse troppo sbrigativamente abbiamo ricondotto al crollo della Prima Repubblica. Mai come oggi, invece, appare chiara l’unicità di un fenomeno che parte da almeno vent’anni prima: una crisi di autorità dello stato che nasce da una crisi di legittimazione della politica, dall’indebolimento della funzione di rappresentanza dei partiti e dei corpi intermedi rispetto alla crescente egemonia di una cultura sovversiva che in questi anni, in forme diverse e complesse, a destra come a sinistra, ha conquistato larghi spazi nelle stesse classi dirigenti. Terreno peraltro, storicamente, assai fertile.
E’ indubbio che negli anni Settanta molto più ampia e diffusa era la manovalanza cui le bande armate potevano attingere. Molto più vasta era soprattutto l’area della complicità e delle solidarietà, la zona grigia in cui gli assassini divenivano, se non eroi da ammirare e magari da imitare, persone da comprendere. Ma ben più alti erano anche gli argini, allora, dinanzi a quella piena impetuosa. Innanzi tutto nella sinistra e nel sindacato.
All’indomani dei primi arresti di questi giorni, e dopo che diversi tra gli arrestati si sono dichiarati prigionieri politici – mica innocenti – uno dei leader di quella stessa Fiom-Cgil cui tanti di loro appartenevano, Giorgio Cremaschi, dichiara alla Stampa: “I giudici siano garantisti come con Berlusconi”. Mentre sui muri delle fabbriche compaiono simboli delle Br e manifesti di solidarietà agli arrestati, a sinistra e nella stessa Cgil la principale preoccupazione appare quella di difendere la propria immagine e quella del movimento. Da alcuni centri sociali si è espressa solidarietà agli arrestati prima con apposito comunicato stampa e poi con gli striscioni che hanno sfilato al corteo di sabato, a Vicenza, con segretari di partito che reggono le sorti della maggioranza al governo, intellettuali afflitti dalla sindrome di Peter Pan e guitti di ogni genere.
Unica eccezione in questo quadro desolante, Fausto Durante, membro della segreteria della Fiom. A oggi l’unico che nella Cgil abbia mostrato consapevolezza del pericolo. L’unico che abbia avuto il coraggio di dire quello che andava detto. “Ci dobbiamo chiarire bene al nostro interno – ha dichiarato sul Corriere della sera di sabato – su come avviene la selezione dei gruppi dirigenti, dei candidati che proponiamo di eleggere e delle persone che partecipano ai nostri congressi. Dobbiamo avere un atteggiamento e un costume più rigorosi al nostro interno e con chi questi limiti e questo rigore non se li pone… Ma come si fa a dire che il terrorismo nasce dall’isolamento nel mondo del lavoro, dalla sensazione dei lavoratori di valere poco o niente? Io non credo che le operaie che a Mirafiori hanno mostrato a Epifani, Bonanni e Angeletti i polsi logorati dalle tendiniti siano minimamente sfiorate dall’idea del terrorismo. Chi guadagna poco e non arriva alla fine del mese, chi era precario prima della manifestazione del 4 novembre e lo è ancora, non ci chiede se siamo per il Partito democratico o contro la base americana, ma di avere un salario più alto e un lavoro più sicuro”. E ancora: “Se uno è iscritto al nostro sindacato dovrebbe avvertire disagio nel fare iniziative insieme a chi ci insulta e offende il sindacato confederale. Io non sfilo con chi porta cartelli che accusano un ministro di essere servo dei padroni e che danno del venduto a un capo del sindacato. Altrimenti tutto diventa confuso e nella confusione giocano anche coloro che vogliono mimetizzarsi”.
Speriamo che nei prossimi giorni Fausto Durante abbia almeno un decimo dello spazio che giornali e televisioni dedicano abitualmente ai Cremaschi, Bernocchi e Casarini. Speriamo che altri, a cominciare dai vertici del sindacato, facciano la propria parte. E la smettano, tutti, nel sindacato e nella sinistra, di fare le vergini offese. Perché non va tutto bene. Perché la situazione non è seria ma non grave. E il fatto che nessuno sembri rendersene conto ne è forse l’aspetto più inquietante.
Nulla però appare inquietante quanto il generale entusiasmo che ha pervaso tanti esponenti della sinistra radicale, e tanti commentatori, non appena sono stati sicuri del buon esito della manifestazione. La pacifica conclusione della dimostrazione di Vicenza ha suonato come la campanella dell’ultimo giorno di scuola. E in tanti si sono riversati sui giornali e nelle televisioni, lanciando in aria i loro grembiuli e le loro cartelle colorate. La festa è già ricominciata.
E si capisce. Da vent’anni ci spiegano che la pagina dell’estremismo politico e del terrorismo è una pagina che occorre voltare, e dimenticare, perché appartiene al passato. C’è stata una guerra civile, dicono. Un fenomeno di massa, un grande sommovimento nella storia del mondo, una stagione irripetibile, crudele e magnifica, che i suoi protagonisti non cessano di celebrare a ogni ora del giorno e della notte. Protagonisti che hanno fatto carriera. E che ora, magari, ci spiegano che quelli di oggi – come già gli assassini di Marco Biagi ieri, e prima di Massimo D’Antona – sarebbero quattro imbecilli fuori del tempo. Mica come loro. Come se negli anni Settanta, coloro che tiravano i sampietrini a Luciano Lama e gli assassini che spesso erano i loro migliori amici e compagni di giochi, loro no, loro erano immersi nel grande fiume della storia. La verità è che quel fenomeno aveva le stesse dimensioni e la stessa profondità dell’eterna lotta tra i ragazzi della via Pal che ancora oggi affligge l’Italia – perché è il modo in cui in Italia si regola la formazione e la circolazione delle élite – ma che nella gran parte del paese non è mai nemmeno arrivato. Una generazione di sovversivi figli di papà, per lo più assai ben connessa e integrata, passata agevolmente dalla lotta pseudo-rivoluzionaria alla milizia nei giornali della Confindustria. Passata agevolmente dai movimenti che attaccavano il Pci di Enrico Berlinguer e la Cgil di Luciano Lama come servi dei padroni ai giornali di quegli stessi padroni, al servizio di quelle antiche dinastie passate non meno agevolmente dal fascismo alla democrazia. I piccoli sovversivi degli anni Settanta hanno potuto continuare così la loro campagna cambiando semplicemente il berretto e le insegne, essendo le stesse persone gli aggressori e gli aggrediti, aggiornando semplicemente gli strumenti e la musica. Paginate intere a gonfiare fino all’inverosimile tutti i Casarini e i Cremaschi di oggi (ma anche i Cofferati e persino i Pancho Pardi di ieri), per poi fare la morale ai dirigenti della sinistra riformista incapaci di rompere con simili compagni di strada. Un gioco che va avanti da decenni, al servizio di quelle grandi famiglie del capitalismo italiano che possiedono i giornali su cui celebrano continuamente i propri nobili natali e le proprie virtù dinastiche, i nostri “capitalisti illuminati”, tralasciando di ricordare i fasti sotto il fascismo e i ricchi festini all’ombra dello stato nei successivi cinquant’anni.
La debolezza delle difese e la generale irresponsabilità messe in luce dal dibattito pubblico di questi giorni sono il conto che ancora dobbiamo pagare all’acquiescenza con cui negli ultimi trent’anni si è lasciata degenerare una simile situazione. I reduci degli anni Settanta, con i loro libri, i loro giornali e le loro trasmissioni televisive, con le loro campagne autoassolutorie sulla presunta guerra civile di cui sarebbero stati insieme vittime e protagonisti, con il loro sovversivismo raffinato che tanto ha contribuito all’abbassamento delle difese immunitarie, all’indebolimento degli anticorpi necessari a fronteggiare l’arrivo dei loro ultimi epigoni, questa generazione andrebbe interdetta per intero da ogni ruolo pubblico, invitata a tacere, ricacciata e isolata nel buio della sua coscienza privata, che nulla ha a che vedere con la coscienza pubblica e con la memoria del paese.