A giocare con quelli più bravi di solito si perde. Soprattutto se lo sport in questione offre pochi appigli, a chi sta sotto, per sovvertire i valori in campo. E anche perché andare da gente che quel gioco lì lo ha inventato, lo pratica da un secolo e mezzo ad alto livello, e ne ha definito le regole, il cerimoniale e la mitologia, beh, intimidisce un pochino. Per questo da quando l’Italia, sette anni fa, è stata ammessa nel salotto buono del rugby – il torneo delle Sei nazioni – il bilancio è stato di tre vittorie in casa, un pareggio esterno, un mucchio di occasioni perse e tanta frustrazione.
Sebbene da qualche stagione si siano visti segni di progresso, a volte consistenti, i risultati faticavano ad arrivare. Anche nelle giornate di vena, nelle partite che l’Italia sembrava in grado di vincere, a un certo momento subentrava quello che a tennis si chiama “il braccino”. La paura, l’insicurezza, il timore reverenziale, che si traducevano in errori gratuiti e distrazioni imperdonabili, regolarmente sfruttate dagli avversari di turno per chiudere la questione.
La stagione di quest’anno era iniziata sullo stesso tono. Una prima, brutta sconfitta in casa contro i detestati francesi, cui aveva fatto seguito la solita sconfitta onorevole contro l’Inghilterra, in un’alternanza di prestazioni che sarà pure dovuta al carattere latino – è vero, capita anche ai francesi – ma che non riusciva a trovare mai un punto di equilibrio.
Sabato si giocava a Edimburgo contro la Scozia, un avversario abbordabile. Entrambe le squadre avevano perso in casa dell’Inghilterra, ma l’Italia aveva venduto più cara la pelle, quindi tecnicamente c’era spazio per un certo ottimismo. Tecnicamente. Se solo il rollercoaser emotivo degli azzurri si fosse fermato per ottanta interi minuti. Una partita accorta, tattica, furba magari, questo ci sarebbe servito. E invece succede che al nostro calcio d’inizio gli scozzesi recuperano palla, Goodman, il mediano di apertura, calcia il pallone, senza accorgersi che Mauro Bergamasco è già montato su di lui. Intercetto, e inseguimento del pallone in meta. Diciannove secondi, e cinque a zero. Scanavacca trasforma per altri due punti. Si riprende il gioco. Il mediano scozzese Cusiter passa il pallone al centro Dewey, che non lo vedrà mai arrivare, perché Andrea Scanavacca ha intercettato il passaggio, e corre dritto per quaranta metri tuffandosi in mezzo ai pali. Quattro minuti, e quattordici a zero per l’Italia. A Murrayfield c’è un gran silenzio. Si riprende nuovamente il gioco, ed è di nuovo Cusiter che si fa intercettare un passaggio arcuato. Questa volta è Kaine Robertson, ala neozelandese naturalizzata, che si tuffa in meta dopo altri quaranta metri di corsa. Ventuno a zero, e appena sette minuti giocati. In condizioni normali sarebbe una partita che si sta portando a casa da sola, c’è solo da gestire un vantaggio, un considerevole vantaggio. Ecco appunto, quando mai all’Italia nel Sei nazioni è capitato di gestire un considerevole vantaggio? Calma, ci vuole calma, pensa lo spettatore tifoso, mentre si ricorda di sbattere le palpebre e di deglutire. Partita tattica si diceva, no? E infatti la tattica della Scozia è di riversarsi furiosamente nella nostra metà campo, e tenerci lì. Ci sono ottantamila scozzesi sugli spalti del Murrayfield che pensano ad alta voce, tutti insieme, e la sorella di Zidane è improvvisamente la santa patrona di Edimburgo. E i quindici scozzesi in campo, quelli dalla parentela discutibile, la stanno prendendo sul personale.
Ci fosse una squadra normale in campo, con un simile vantaggio, cercherebbe di recuperare il pallone, di calciare lungo, di abbassare il ritmo, di controllare la gara. Ma c’è l’Italia, e prova a contrattaccare. La nostra capacità di gestire tatticamente la gara è nulla, e veniamo ricacciati indietro. Per fortuna la Scozia non sembra molto più lucida di noi, e rifiuta tutte le occasioni di piazzare dei calci di punizione alla ricerca della meta. E c’è una cosa che l’Italia ha imparato a fare bene. Difendere con tigna. Noi siamo fallosi, ma loro non sfondano. Segnano una meta, e ci tengono in difesa per la maggior parte del primo tempo, ma non concludono molto. All’intervallo siamo 24-10. Bene. Si riprende e pensi che la pausa sarà servita ai nostri per chiarirsi le idee, adesso torneranno in campo e gestiranno l’incontro. E invece. E invece non riusciamo ad avere continuità, commettiamo errori stupidi – i soliti – perdiamo palloni che dovremmo conservare come sante reliquie, e siamo di nuovo costretti in difesa. Al ventesimo del secondo tempo, Paterson, il capitano scozzese, fa a fette la nostra difesa e corre indisturbato in area di meta. 24-17 e venti minuti da giocare in una partita che adesso non finisce mai. No, non stavolta. Non così. Non da ventuno a zero. E’ una scena che conosci a memoria, l’hai vista tante volte. Spesso proprio negli ultimi minuti. Il braccino, la paura, Murrayfield che adesso ci crede e non parla più delle sorelle di Paterson, di Cusiter e di Dewey. Partita tattica, ci voleva, e invece. E invece scatta qualcosa nella testa degli azzurri. Niente più braccino. Alessandro Troncon, il nostro mediano, si ricorda che, almeno a rugby, l’ignoranza è forza. Non apre più un solo pallone, gioca solo vicino alla mischia, conservando il possesso. Numero uno, avanzare. Siamo nella loro metà campo, stabilmente. Numero due, portare pressione. Avanziamo ancora. Per fermarci gli scozzesi devono commettere fallo. Scanavacca si fa portare la piazzola e si prepara. E segna. Niente più braccino, anzi, piedino. Ora la Scozia ci crede già un po’ meno, e Troncon continua nello stesso modo. Palla alla mischia e avanti. Scanavacca non sbaglia un calcio, e arriva anche un’ultima meta. E’ proprio Troncon che prende un pallone che la sua mischia ha portato fino a un metro dalla linea e si tuffa prima di venire coperto da un groviglio di scozzesi. 37-17 e pochi minuti, la partita è vinta, ma c’è un’ultima cosa da misurare, il carattere. La Scozia si ributta in avanti con rabbia, vuole la meta della bandiera, per l’onore delle sorelle. Concederla non costerebbe nulla, la partita è vinta comunque, l’acido lattico nei muscoli degli azzurri grida di lasciargliela. E invece. E invece gli scozzesi arrivano fino a due metri dalla linea, e vengono ricacciati indietro. Fino a un metro, e vengono respinti. Provano a penetrare stretto, ma non avanzano. Giocano al largo, ma vengono placcati. E’ finita. Trentasette a diciassette, prima vittoria in trasferta nel Sei nazioni. Il dieci marzo a Roma ci sarà il Galles. Si potrà vincere, o perdere. Sì controllerà la partita, o forse no, come oggi. Ma il braccino, quello finalmente non c’è più.