L’ immaginario collettivo esiste in una certa misura anche in musica, nel senso che se ci viene proposto di ascoltare musica argentina è probabile che ci predisponiamo all’ascolto di un tango, e se di un certo musicista sappiamo che viene dai Balcani ci aspettiamo che non possa fare a meno di danze, ottoni e grancasse. Viceversa, di fronte ad un pezzo di cui non conosciamo la genesi, la tentazione immediata è quella di definirne la collocazione spazio-temporale. Da dove viene questa musica, e quanto tempo fa è stata scritta? Soprattutto, in che misura è legata al tempo e al luogo in cui è stata concepita e quanto di essa riesce a “passare” in chi l’ascolta vent’anni dopo e a diecimila chilometri di distanza? Da questo punto di vista si sarebbe tentati di identificare la rilevanza di certa musica con quella che potremmo chiamare la sua universalità, caratteristica che emerge quando ascoltando un pezzo lo si apprezza senza nessun obbligo di andare con la mente a un particolare clima culturale o a un particolare momento storico o a un’estetica passata. Si ascoltano Crosby, Stills, Nash & Young e la mente va irrimediabilmente alla West Coast lisergica, ai capelli lunghi, ai figli dei fiori: è anche, se non soprattutto, pensando a questo che ancora si può godere della loro produzione (non senza sforzo, per la verità). Poi si mette nel lettore un album di John Martyn (pensiamo ad esempio a “Solid air” o a “Inside out”), stesso periodo, stessi anni, anche qui canzoni, solo Scozia invece che Stati Uniti, e si viene immediatamente catturati dalla labilità dei riferimenti, dalla metatemporalità di ciò che si ascolta, dalla più che moderna ricerca formale che è di trentacinque anni fa ma che potrebbe essere anche quella di oggi. La conclusione salomonica che se ne potrebbe trarre è che esistono grandezze diverse, qualitativamente non confrontabili. Sono certamente grandi quelli che riescono a restituire alla perfezione l’atmosfera di un’epoca, ma che a questa rimangono intimamente legati, sicché ascoltarli quando quell’epoca è finita da un pezzo può funzionare, ma sotto opportune condizioni (ricordi, partecipazione personale, memoria storica, eccetera). Ma forse più grandi ancora sono quelli che si svincolano dal proprio spazio-tempo, che creano forme e linguaggi autonomi, che anticipano ciò che altri possono liberamente riprendere, magari anni dopo e a migliaia di chilometri di distanza, senza correre il rischio di muoversi in maniera inautentica (en passant, questa è proprio la trappola in cui qui in Italia cade rovinosamente un emergente come Mario Biondi, cantante che usa i suoi straordinari mezzi vocali per farci affondare hic et nunc nella dimensione posticcia e un po’ retrò dello swing nordamericano di maniera).
È per questo che l’ultima cosa che può passarci per la mente è quella di guardare con sospetto a quei musicisti che, pur attivi in un tempo e in un’area geografica fortemente caratterizzati da una cultura musicale egemone, decidono di fregarsene di quella cultura per battere altre strade. La bontà di questo tipo di scelta naturalmente non può che dipendere dal suo approdo finale, ma ci interessa già in linea di principio per il distacco che essa in ogni caso implica e per le incognite che inevitabilmente presenta. Si nasce ad esempio a Napoli nei quartieri spagnoli, ed è indubbio che l’affrancamento dai neomelodici sia cosa rara e difficile, e ugualmente se si nasce in Brasile è alta la probabilità che si debba faticare per scrollarsi di dosso la formazione a base di samba e di bossanova. In questo ambito è proprio del Brasile che vale la pena parlare, per il grande interesse che suscitano diversi artisti e gruppi di recente costituzione che a vari livelli si muovono nel solco di una sperimentazione che poco condivide con la tradizione di quel paese. Di nomi se ne potrebbero fare diversi, ma qui ci limitiamo a considerare quello dei signori Chris Vogado e Neil Combstock, alias Frank de Jojo, componenti del duo noto ai più come Zero Db (e i più, almeno dalle nostre parti, non sono poi molti). Dopo alcuni anni di esperienze nel campo dei remix e della manipolazione elettronica del suono, il duo ha da poco pubblicato un sorprendente primo album, “Bongos, bleeps and basslines”, dal quale si resta quantomeno spiazzati per l’ardita commistione di stili, ritmiche e suoni. Si comincia con “A pomba girou”, si sentono percussioni a iosa in stile carnevale di Rio e si pensa ad una versione solo poco aggiornata di certa musica brasiliana tradizionale. Già a metà pezzo però irrompono suoni house che preludono al primo cambiamento di scena, quello che si realizza concretamente nel brano successivo (che è anche quello che dà il nome all’album). Ma gli Zero Db non si fermano qui e ripartono più avanti con le atmosfere nitidamente jazz di “Conga madness” e “On the 1&3”, con la ritmica e il canto hip-hop di “Know what I’m saying?” e “Anything’s possibile”, ed ecco che poi il Brasile riappare nella splendida “Coisa de gringo”, e tutto è continuamente rimescolato e separato, ricomposto e riframmentato, ma sempre tenuto insieme da una solidissima e trascinante sezione ritmica, nonché dalle splendide voci femminili di Voice e Heidi Vogel. Come si capisce facilmente, non è un album per puristi quello degli Zero Db. È molto vicino al jazz, ma non è jazz, è in sintonia con certa musica house, ma ne è sostanzialmente lontano, le influenze brasiliane ci sono ma il contesto non è certo quello al quale molti connazionali di Vogado e Combstock ci hanno abituato. Piuttosto che sconcertarci, questa indefinitezza sinceramente ci affascina, e se solo si accetta l’idea che la necessità di purezza formale è un limite molto più che un obbligo, non si fa nessuna fatica ad affermare che la musica degli Zero Db è tra le cose più stimolanti che la scena internazionale possa offrirci in questo momento.
Alfonso Romano