Nelle giornate che hanno preceduto – e propiziato – la prima crisi del secondo governo Prodi sono riemerse al suo interno due linee politiche inconciliabili, esattamente come accadde nell’ottobre del ’98, al tempo della seconda crisi del primo governo Prodi. Ma quel conflitto, in verità, non è mai venuto meno. Semplicemente, a partire dall’estate del 2003, quel conflitto è passato – per dirla con parole antiche – dalla guerra di movimento alla guerra di posizione. Sin dalla nascita dell’Ulivo come coalizione elettorale nel 1995, infatti, al suo interno si sono confrontate due opposte linee strategiche, fondate su due opposte letture della crisi degli anni Novanta.
Per Massimo D’Alema, allora segretario del Pds, dopo il collasso del sistema politico nel ’92-93 si era aperta in Italia una questione democratica, che aveva avuto nella vittoria della destra populista guidata da Silvio Berlusconi il suo esito naturale. In questo senso l’Ulivo era dunque ai suoi occhi l’alleanza delle forze democratiche chiamate a ristabilire il primato della politica, contrastando la campagna di delegittimazione dei partiti animata dagli spiriti animali di una parte cospicua della società e delle classi dirigenti italiane. Da chi, dopo avere felicemente convissuto nel precedente sistema politico con i partiti e con le loro correnti maggiormente responsabili della crisi – godendo delle loro protezioni e dei loro favori, ricambiandoli – al momento di pagare il conto puntava a far saltare il banco, passando inopinatamente dalla parte dell’opposizione al sistema, rappresentando attraverso i propri giornali un sistema politico corrotto in cui tutti erano colpevoli allo stesso modo. Un sistema politico – la celebre partitocrazia – oppressore di quella virtuosa società civile di cui essi si proclamavano alfieri.
Per Arturo Parisi, al contrario, l’Ulivo era la prosecuzione e in un certo senso il compimento della battaglia per il rinnovamento della politica cominciata con i referendum Segni. La campagna contro i partiti, la sua saldatura con le inchieste giudiziarie e infine l’adozione di un sistema elettorale maggioritario erano le fondamenta su cui ricostruire un sistema politico fondato sui principi della “democrazia governante”. L’obiettivo era il primato del governo sulla mediazione parlamentare, attraverso le opportune riforme istituzionali, per arrivare a un sistema sostanzialmente bipartitico. Sciogliendo definitivamente all’interno dei due partiti-coalizioni quello che restava dei partiti tradizionali. Era il primato della società civile sugli apparati, tenuti sotto lo schiaffo permanente del sospetto nelle ricorrenti campagne incentrate sulla questione morale, svuotati dall’interno attraverso meccanismi di selezione dei dirigenti incardinati sullo schema delle primarie a tutti i livelli.
L’apparente inconciliabilità delle due posizioni si manifestava sin dall’inizio. Inevitabilmente: la prima puntava a ricostruire una democrazia dei partiti, la seconda a cancellarla per sempre dalla storia d’Italia. All’indomani della caduta di Romano Prodi e dell’ascesa di Massimo D’Alema, nell’ottobre del ’98, tale conflitto a lungo covato esplodeva finalmente in tutta la sua portata distruttiva. Gli strascichi e le macerie di quella guerra civile all’interno della sinistra italiana sono ancora sotto gli occhi di tutti e non c’è bisogno di farne l’elenco.
Nulla sembra essere cambiato quando nell’estate del 2003, ancora presidente della Commissione europea, Romano Prodi chiede come condizione per tornare in Italia alla guida della coalizione di centrosinistra una lista unica di tutte le forze dell’Ulivo. Ma ecco che Massimo D’Alema gli risponde con la proposta di una lista delle forze che ormai da anni condividono una stessa linea politica, che può dirsi riformista – Ds, Margherita, Sdi – e propone che non sia solo una lista elettorale, ma il primo passo per la costruzione di un nuovo partito. E proprio questo è il compromesso con cui si chiude quella lunga guerra civile che oggi qualcuno vorrebbe riaprire.
Possiamo tralasciare le complicate vicende della lista unitaria che si sono sviluppate nel frattempo, con le spregiudicate manovre di tanti protagonisti. Questo sito internet è nato anche per quell’obiettivo, alla fine del 2003, e quelle vicende le ha raccontate in dettaglio, nella convinzione che la costruzione del Partito riformista – come si diceva allora – fosse l’unico modo di uscire dagli anni Novanta. E il Partito democratico continua a sembrarci una sintesi tra le posizioni dalemiana e ulivista di gran lunga preferibile a ciascuna delle due.
Dinanzi alla possibilità di chiudere felicemente quella stagione, però, riemergono oggi i fantasmi degli antichi contendenti: da un lato i nuovi difensori dell’identità socialista, il correntone diessino innanzi tutto; dall’altro una sorta di ulivismo nero, che vede uniti nella lotta contro il Partito democratico che c’è – o quantomeno potrebbe esserci – Arturo Parisi e Walter Veltroni. Attraverso un nuovo referendum, entrambi aspirano a disarticolare l’aggregazione Ds-Margherita, per tornare a quello che Veltroni ha evocato come “lo schema del ’96”: un partito democratico i cui confini vadano da Mastella e Di Pietro a Pecoraro Scanio e Cossutta, tenuto insieme – sul modello del comune di Roma – da una legge elettorale e da opportune riforme istituzionali che consentano al capo del governo, direttamente eletto dai cittadini, di tenere in pugno la sua maggioranza con la minaccia delle elezioni anticipate. Uno schema che in noi suscita diverse perplessità nella sua concreta applicazione ai comuni, specialmente a Roma, ma che assume un carattere semplicemente inquietante se proiettato su scala nazionale. In questo schema, evidentemente, la partecipazione democratica tanto solennemente invocata si ridurrebbe in realtà a un plebiscito per il leader in occasione delle primarie e poi del voto. E così, con sorprendente sincerità, tale proposta viene presentata dall’impaziente sindaco della capitale: un premier che sia garante del programma con cui si presenta agli elettori perché dotato dei poteri per realizzarlo, e dopo cinque anni se ne riparla. Tanto varrebbe chiudere giornali e partiti, rassegnarsi all’idea che discutere e organizzarsi per i propri diritti e per i propri interessi sia non solo inutile, ma addirittura dannoso al buon funzionamento della democrazia. Una democrazia governante perché basata sul principio della delega in bianco al leader. Ma anche una democrazia in cui i gruppi economici e d’interesse capaci di influenzare il voto e l’opinione pubblica per altri canali al di fuori del gioco politico democratico – così imbrigliato – continuerebbero naturalmente a contare. Anzi, conterebbero più che mai, senza l’impaccio costituito dai partiti, o più semplicemente dalla politica, e dovendo trattare di fatto con una sola persona. Non per nulla Walter Veltroni gode di ottima stampa.