Avete appena pubblicato il vostro nuovo singolo, intitolato “Crashing Around You” e le radio fm di tutta la nazione lo stanno diffondendo in heavy rotation; in rete è già tra i cinque più selezionati e i canali televisivi programmano il video, dove suonate nel bel mezzo di un incendio che devasta la skyline di San Francisco. Tutto è sotto controllo e procede per il verso giusto.
Peccato che sia il 10 Settembre 2001: poche ore, e la fantasia verrà annichilita dalla realtà. Poche ore, e quel singolo tratto da “Supercharger” sarà considerato alla stregua d’una discutibile provocazione. Inutile sostenere l’involontarietà della coincidenza. E per i Machine Head, autori di album e singolo, questa si dimostrerà una vera pietra al collo, abbastanza pesante da trascinarli sino al punto più basso di una carriera già segnata, in senso diametralmente opposto, dal successo-monstre del primo lavoro, il monumentale “Burn My Eyes”.
Un up-and-down estremo al quale, per molti, sarebbe stato difficile sopravvivere: da un lato, un esordio che si trasforma subito in un classico, un punto di riferimento per tutta la scena metal di lì a venire; dall’altro, una sciagurata sovrapposizione tra quelle che – di norma – sono le coordinate del metallo (il senso della morte, l’angoscia sottile del quotidiano, l’imminenza della catastrofe sociale) e l’assoluta realtà dei fatti, l’impatto degli aerei, il crollo delle Twin Towers – “Crushing Around You”.
A sei anni di distanza, tuttavia, il gruppo ha già risollevato le sue sorti: innanzi tutto, grazie all’eccellente “Through The Ashes Of Empire” del 2003 con il quale, senza rinnegare i tentativi di innovazione nel sound compiuti con “Burning Red” (’99) e “Supercharger”, traggono dalle radici nuova linfa per le note rabbiose, corrosive, brutali che caratterizzavano l’esordio e il successivo “The More Things Change” (’97); un sound quadrato ma non introverso, massiccio ma non privo di agilità, feroce ma non fine a se stesso. E ora, “The Blackening” (03/07) – il titolo è un avvertimento – replica quel risultato, forse migliorandolo. Obiettivo tutt’altro che scontato per una band assolutamente fedele a se stessa (anche le aperture di “Burning” e “Supercharger” avvenivano in un contesto di coerenza e stretta continuità) e con quindici, pesanti, anni di esperienza alle spalle. Dalla prima line-up, con i pilastri Robert Flynn (voce e chitarra) e Adam Duce (basso) affiancati da Logan Mader (chitarra, più tardi con i Soulfly) e Chris Kontos (batteria, anche nei Testament e nei Konkhra); a quella attuale, con il secondo chitarrista Phil Demmel (con Flynn nei Vio-lence, prima dei MH) e il batterista Dave McClain (ex-Sacred Reich); attraverso estenuanti tournée e abitudini non sempre salutiste, i Machine Head non hanno mai perso – al di là della maggiore o minore riuscita artistica dei singoli album – la forza della loro proposta, quell’impasto sonoro che ha sollecitato nel tempo le definizioni più diverse e improbabili ed è, invece, perfettamente definito dallo stesso Rob Flynn in una vecchia intervista: hardcore, o anche “la risposta della West Coast ai Biohazard”.
“The Blackening” si dimostra, peraltro, ben più efficace e incisivo dell’ultimo Biohazard, “Means To An End”; la ruggine non intacca il cuore della Macchina e le otto tracce si abbattono sull’ascoltatore come altrettanti colpi di maglio: su tutte, “Clenching The Fist Of Dissent” (ancora un titolo che dice tutto) e “A Farewell To Arms”, entrambe sopra i dieci minuti di durata e collocate, significativamente, all’inizio e alla fine dell’album. In mezzo altri quaranta minuti di ottime performance vocali e strumentali, testi non banali, assolo di pregio a spezzare l’altrettanto elaborata coltre di compattezza: barbarie non priva di impegno. E si sente.