Si può esser certi che la maggior parte delle persone minimamente interessate alla cosa considera che la questione dei rapporti tra fede e ragione sia una questione filosofica. In effetti lo è, ma cosa comporti il fatto che la filosofia sia la sede deputata per l’istruzione di una simile questione non è chiaro quasi a nessuna di quelle persone. Chiarirlo dovrebbe essere un compito preliminare; e invece, da Papa Benedetto XVI in giù, sembra che si possa bellamente ignorarlo, lasciando che la questione diventi subito e soltanto se vi sia accordo o disaccordo tra ragione e fede. È questo, infatti, il problema che viene sollevato dal papa, per esempio nella celebre lezione di Regensburg (12 settembre 2006: la lezione che fece arrabbiare i musulmani, e che aveva al suo centro la “razionalità” della fede cristiana – «non agire secondo ragione è contrario alla natura di Dio» – opposta alla “irragionevolezza” della fede islamica in un Dio assolutamente trascendente), o nel discorso ai vescovi svizzeri (9 novembre 2006: «La nostra fede è una cosa che ha da fare con la ragione, può essere trasmessa mediante la ragione e non deve nascondersi davanti alla ragione, neanche a quella del nostro tempo»). E’ questo il problema che torna ancora di recente nell’ultimo discorso di Camillo Ruini dinanzi alla Conferenza episcopale italiana, e che rimbalza dalla Conferenza ai giornali, devoti o no.
Anche Emanuele Severino, sul versante filosofico, sembra in verità dare credito alla medesima impostazione. Il suo problema è infatti il seguente: è dai tempi di Tommaso che la Chiesa cattolica sostiene che fede e ragione possono concordare, ma questa tesi della concordia tra fede e ragione è a sua volta una questione di fede o una questione di ragione? Rispondere che è un affare di fede significa mettere l’autonomia della ragione nelle mani della fede; rispondere che è un affare di ragione significa mettere invece la fede nelle mani della ragione: nell’uno e nell’altro caso, uno dei due termini subisce uno snaturamento. L’aporia che Severino intende così rilevare suppone però che fede e ragione siano due grandezze autonome: la domanda sulla natura di questa autonomia, e il suo carattere aporetico, è perciò già decisa dal modo in cui sono stati preliminarmente posti i termini del problema.
Ma come vanno posti quei due termini, fede e ragione, di maniera che il problema della loro concordanza o discordanza non sia già pregiudicato dal modo stesso in cui, appunto, sono posti? Come ognuno vede, la questione ora sollevata ha carattere preliminare rispetto a quella su cui si esercitano per lo più il papa, Camillo Ruini, Emanuele Severino e giù per li rami – e, di solito, una questione autenticamente filosofica si riconosce proprio per il fatto che pretende, a torto o a ragione, una certa preliminarietà. Si potrebbe persino dire che la filosofia è proprio la scienza dei preliminari (e questo giustificherebbe il fatto che filosofia significa: amore del sapere), se questo non sollevasse il legittimo sospetto che il filosofo, povero lui, al dunque non arriva mai…
E infatti non ci arriva. Ma, senza pretendere ora che in questa sua impotenza si celi una superiore maestria, non sarà che questo dipende da una certa sterilità della questione più che non dalle inconcludenze del ragionare filosofico? Ovviamente, non v’è chi non sappia che la questione dei rapporti tra fede e ragione è una questione cardinale per l’intero Occidente cristiano; se però essa oggi appare sterile, è perché riesce difficile immaginare, ancor prima di mettersi lì a pensare, che essa possa trovare una qualche soddisfacente sistemazione teorica. Un conto è infatti discutere dei rapporti tra ragione e fede quando generalmente si ritiene che sia possibile dimostrare l’esistenza di Dio – il fiore all’occhiello della metafisica classica – tutt’altro è farlo quando si ritiene generalmente che è invece abbastanza insensato anche solo provarci. Se l’esempio non fosse chiaro, ne aggiungo un altro: Descartes, uno dei padri della filosofia moderna, si assunse l’onere di spiegare in più di un’occasione come si potesse fare a rendere compatibile la nuova scienza fisico-matematica della natura con il dogma della transustanziazione, che poteva per questa via apparirgli certo un miracolo, ma non del tutto incomprensibile. Va da sé, invece, che nessuno che si faccia oggi paladino dell’accordo fra fede e ragione se la sentirebbe di mettere alla prova questo accordo sul dogma mariano o su uno qualunque degli altri dogmi fondamentali della fede cristiana, e non sono pochi a ritenere che, anzi, la fede guadagna e non perde qualcosa, mollando la zavorra della metafisica al suo destino.
Questo essendo lo spirito del nostro tempo, è più interessante domandarsi allora cosa mai significhi questa insistenza sul modo in cui possano accordarsi – o persino sull’esigenza di accordare – ragione e fede. Io credo che vi siano due motivi di fondo; e penso che, al di là delle polemiche contingenti, su di essi valga la pena riflettere.
Il primo emerge quando Papa Benedetto insiste sul fatto che la razionalità formale e strumentale, scientifica e tecnica, che (a tacer d’altro) taglia fuori le questioni ultime sul senso della vita e dell’esistenza, non esaurisce il concetto di ragione. Ciò pone un problema reale. E si può convenire: la stessa ragione formale e strumentale, per queste sue proprie caratteristiche, non può decidere se sia razionale o meno la questione ultima sul senso della razionalità in generale. Ma da una simile apertura della questione circa il senso della razionalità alla chiusura dottrinale e assertoria passa una differenza incolmabile. Non si tratta solo del deposito dogmatico della fede, e neppure soltanto del fatto che non si può non tenere conto di quanto la filosofia contemporanea ha mostrato: di come cioè dietro la presunta maggiore apertura di quella ragione metafisica si celassero un buon numero di “chiusure” – alcune delle quali persino odiose. Si tratta invece di una difficoltà di principio: se la ragione scientifica non può tagliare fuori le questioni ultime, ciò deve appartenere alla natura stessa di quelle questioni. L’apertura di senso deve cioè dipendere dalle questioni medesime, non da un difetto di conoscenza che in altra sede (quello per esempio dell’infallibile magistero petrino) possa venire chissà come colmato. Ma la Chiesa cattolica non è affatto disposta a considerare come l’apertura circa le questioni ultime ci renda liberi per le questioni penultime, piuttosto che fornirci le relative risposte. E l’entusiasmo degli atei devoti, che dicono di pendere dalle parole della Chiesa sulle questioni penultime e pure sulle terzultime, per quelle ultime sentendosi invece assolti da ogni obbligo per il fatto che la fede è, ahiloro, un dono del signore che non hanno avuto in sorte – beh, quell’entusiasmo è di per sé eloquente.
Ma c’è un secondo motivo. Che risolverò in una battuta, proponendolo semplicemente come un invito a riflettere. Non sarà che in tutta questa storia dell’accordo tra ragione e fede s’avanza non l’esigenza di spiegare secondo parole di verità e dal punto di vista della fede l’uomo e il mondo, ma la difficoltà drammatica che la fede incontra nel nostro tempo, semplicemente, di spiegarsi?