Volendo parlare della musica rap e della sua cultura di riferimento, il cosiddetto movimento hip-hop, si potrebbe cominciare da quello che ha dichiarato un jazzista di rango come Wynton Marsalis in un’intervista concessa di recente: “Devi dire che vieni dalla strada, hai ammazzato qualche fratello, e sei andato in prigione. I rapper devono ostentare la corretta patologia. Il rap è diventato un safari per gente che si eccita a osservare gli afro-americani degradarsi, uomini che si vestono d’oro, si chiamano con stupidi nomi come Ludacris o 50 cent, spendono soldi in costosi fronzoli e usano un linguaggio infarcito di ‘puttana’ e ‘negraccio’”. E ancora: “L’hip hop non ha nessun merito: ritmicamente, musicalmente, poeticamente. Di cosa dobbiamo parlare? La batteria, il tamburo, lo strumento centrale della musica afro-americana, il suono della libertà, è stato rimpiazzato da un loop ripetitivo.” Il discorso potrebbe a questo punto chiudersi qui, ma è chiaro che un giudizio così tranchant, pur negli indubbi elementi di verità che contiene, non rende ragione di un movimento che nel bene e nel male ha comunque segnato la scena musicale degli ultimi tre decenni. Tutto nasce nella seconda metà degli anni Settanta nei quartieri neri di New York: un DJ fa suonare un vinile sul piatto, muovendolo avanti e indietro sotto la puntina in maniera da farlo grattare ritmicamente (il cosiddetto “scratch”), e simultaneamente l’MC, il maestro di cerimonia, “rappa”, cioè parla sulla base musicale componendo una specie di cantilena che dal punto di vista musicale suona fondamentalmente sempre allo stesso modo. Ciò di cui si parla, spesso in rima, in questa prima fase ha quasi sempre a che fare con tematiche di impegno sociale. I neri dei ghetti trovano nel genere un potente strumento di espressione, attraverso il quale denunciano la loro condizione, parlano di problemi razziali, affermano un violento odio di classe in risposta a tutto ciò che li emargina. Il movimento nasce quindi con una sua chiara ragion d’essere e questo fa anche passare in secondo piano la valutazione più strettamente musicale di ciò che i rapper neri producono con grande prolificità. Conta il messaggio, conta il fatto che soggetti sociali ai margini abbiano trovato la formula giusta per farsi sentire e per far sì che si parli di loro, non conta il saper suonare, basta disporre di potenti loop ritmici rubati chissà dove e il gioco è fatto. Senonché, col passare degli anni le cose cambiano, e proprio dal punto di vista dei contenuti e del messaggio. Prende piede, per poi allargarsi a macchia d’olio, l’esaltazione della violenza gratuita e fine a se stessa, il dileggio delle donne e dei gay, il continuo riferimento, esplicito oltre misura, ad abitudini e pratiche sessuali. Tra i rapper comincia una singolare gara a chi più volte ha partecipato ad atti criminosi, il sopra menzionato 50 Cent arriva a vantarsi del fatto che i suoi nemici gli hanno sparato per ben nove volte, personaggi come Biggie Smalls e Tupac Shakur vengono ammazzati in circostanze oscure e diventano immediatamente icone sacre per l’intero movimento.
L’aspetto peggiore del fenomeno è il fatto che questa nuova tendenza trovi ampia risonanza tra le case discografiche specializzate nel settore. Rilevata l’inaspettata popolarità del genere e fiutato l’affare, queste ultime chiedono esplicitamente una produzione il più possibile inneggiante a crimine, sesso e violenza. Fiumi di danaro vengono versati nelle tasche di molti rapper che, in barba alle proprie origini, si godono l’inaspettata ricchezza dall’interno di macchine sfavillanti, con relativo stuolo di fanciulle al seguito e le classiche terribili catene d’oro, segno di un potere conquistato. Per i cultori del genere, questa è solo una parte della storia, e cioè quella di una minoranza “cattiva” che getta discredito su un movimento che è e resta nobile nella sua ispirazione. Ciò nonostante, rimane forte in questo ambito la tentazione di pensarla come Marsalis, ed è chiaro che in un contesto che è già di strutturale debolezza artistica, il venir meno dell’autenticità del fenomeno, che pure da sola fatica a restituire un senso, spinge in maniera naturale a porsi la domanda: ma cosa ci resta da salvare dell’intero movimento?
Comunque la si pensi, non può in ogni caso essere trascurato il dato ulteriore che una musica e una cultura partorite in un contesto estremamente specifico e caratterizzato vengano molto presto fatte proprie, non si sa bene come e perché, da giovani bianchi, e non solo da quelli delle periferie, ma anche e soprattutto dai figli della buona borghesia delle città, negli Stati Uniti come in Europa. E’ possibile spiegare tutto col fascino che ogni cultura tendente alla trasgressione, quando non addirittura alla violenza, esercita ad ampio spettro sui settori giovanili più disparati? Ci si può accontentare di ciò che viene candidamente espresso dal fan di turno che dichiara che tutti nel profondo abbiamo bisogno di sentirci dei cattivi ragazzi?
E’ accaduto così che già sul finire degli anni Ottanta il rap sia approdato anche dalle parti nostre. Gruppi come Assalti Frontali, 99 Posse, Sud Sound System, Frankie Hi-Nrg, Sangue Misto, solo per ricordare alcuni dei nomi storici della scena italiana, nascono e crescono, prevalentemente nell’ambito dei centri sociali, dedicandosi all’espressione di un antagonismo a volte del tutto ingenuo e generico, altre volte efficace nell’individuazione di precise storture delle realtà di provenienza. Pur con l’inevitabile approssimazione del caso, si può forse dire che ad esprimere meglio questa seconda tendenza sia un numero relativamente ristretto di gruppi concentrati nell’area napoletana e in quella salentina. Ad essi va riconosciuto il duplice merito di avere da un lato sperimentato un uso certamente innovativo dei propri dialetti d’origine e dall’altro di aver utilizzato forme musicali più evolute e flessibili, poi riprese e felicemente rielaborate da altri in contesti culturalmente più articolati (si pensi ad esempio al caso più che rilevante dei napoletani Almamegretta). Venendo ai giorni nostri, si può dire che a distanza ormai di una quindicina d’anni sono ancora tanti coloro che, sempre per parlare dell’Italia, continuano ad avere il rap come propria estetica di riferimento. Ma ormai lo si fa per parlare di tutto, del proprio cane, della propria fidanzata, della propria squadra del cuore e ancora, sia pure in misura più limitata, per esprimere un qualche disagio sociale. Non che l’impegno in musica ci interessi più di tanto, ma accanto ai pochi eredi delle posse, l’ala politicizzata dell’intero movimento, prospera l’hip-hop di massa fatto di ritornelli orecchiabili e contenuti ultraleggeri, di inutili ripetizioni e nuovi conformismi, il tutto in una cornice musicale che è spesso di sconcertante pochezza. Francamente non può che farci tristezza vedere ancora oggi questa massa di giovani un po’ tutti uguali, tutti col cappellino e coi pantaloni dal cavallo basso, tutti muoversi allo stesso modo, coi gomiti alti e il microfono incollato alla bocca, scimmiottare rapper d’oltreoceano visti perlopiù in televisione, e farsi anche la guerra per la conquista di improbabili primogeniture. Si dirà, è già un bene che in tanti decidano di esprimersi secondo forme che potremmo definire non convenzionali, e si imputerà pure l’incapacità di cogliere certe dinamiche giovanili a chi critica il rap nostrano non avendo più vent’anni da ormai più di vent’anni. Ma non sarebbe anche il caso che da parte di certa gioventù si abbandonasse in fretta la fase giovanilista e omologata (perché anche questo rap è omologazione) e si provasse invece senza perder troppo tempo a puntare artisticamente un po’ più in alto? Non sarebbe il caso che si leggesse un po’ di più e si ascoltasse un po’ di più, prima di autoproclamarsi artisti e darsi in pasto alle platee urlanti? Circola a volte la strana idea che con chi si trova al di sotto dei trent’anni non si debba eccedere nella richiesta di rigore (sono giovani, lasciamo che si esprimano!). Ma siamo sicuri che si faccia loro del bene invocando questo discutibilissimo principio da categoria protetta? Sempre guardando a ciò che è successo in casa nostra, sia pure in un ambito molto diverso da quello di cui si sta parlando, basta ricordare, e non è una questione di nostalgia, che Fabrizio De André aveva ventotto anni quando ha pubblicato “Tutti morimmo a stento”, mentre Francesco De Gregori ne aveva addirittura ventiquattro ai tempi dell’uscita di “Rimmel”.