Il Partito democratico non serve alla sinistra italiana, non serve ai gruppi dirigenti e nemmeno ai militanti di Ds e Margherita, non serve al centrosinistra nel suo complesso. E’ all’Italia che serve un partito democratico, perché è la democrazia italiana che da quindici anni vede le sue strutture portanti piegarsi sotto il peso di una delegittimazione crescente, che non a caso si è accompagnata alla progressiva espropriazione delle sue prerogative e dei suoi poteri. Una lunga fase difficile – che si può definire di transizione o di crisi, secondo i gusti – in cui di fatto la campagna di delegittimazione della politica e delle istituzioni democratiche ha ottenuto due effetti: da un lato una sostanziale sospensione del diritto, così da permettere regolamenti di conti interni condotti per le spicce; dall’altro l’inibizione delle capacità di reazione del sistema, tenuto sotto scacco dalla stampa e dalla magistratura.
Non è questa la sede per stilare un bilancio delle inchieste che tra il 1992 e il 1993 hanno decapitato la classe dirigente del nostro paese. Quale che sia il giudizio su quella stagione e sulla condotta dei suoi principali protagonisti – nei partiti e nelle istituzioni, nelle procure e nei giornali, nel mondo della finanza e dell’editoria – non si può non vedere, però, come l’Italia di oggi sia ancora, almeno in larga misura, il paese uscito da quel gigantesco e tumultuoso processo di ristrutturazione del potere.
Da quindici anni, in Italia, si discute ininterrottamente di nuove leggi elettorali e di più generali riforme istituzionali. Basterebbe questa semplice annotazione a dare la misura esatta della crisi. Da quindici anni il dibattito pubblico e l’intero sistema politico appaiono ripiegati su se stessi. Immobili al centro della scena, dinanzi a un pubblico stupefatto e sempre meno numeroso, gli attori discutono animatamente tra loro del copione e della scenografia, mentre improvvisati registi salgono sul palco e ne vengono buttati fuori con crescente rapidità. Di qui le tante stucchevoli discussioni sulle riforme che sarebbero necessarie e sull’incapacità delle maggiori forze politiche di porvi mano, sul perché in Italia la sinistra non possa fare la sinistra e la destra non possa fare la destra, sulla misteriosa e irriducibile anomalia della democrazia italiana.
Volendo intrattenersi un po’ di tempo in allegria, si potrebbero passare in rassegna le tante formazioni politiche fiorite e appassite nel corso di questi quindici anni: nuovi partiti e nuove alleanze, federazioni di partiti e movimenti più e meno spontanei, in una giostra di scissioni e ricomposizioni che ha partorito gli incroci più sensazionali. Molti illustri segretari di partito hanno alle proprie spalle un numero considerevole di simili esperimenti, storici incontri, nuovi inizi e svolte epocali.
Non è questa la storia del Partito democratico, nonostante l’insopportabile retorica dell’identità e dei valori alimentata ad arte da coloro che vorrebbero consegnarlo subito a una simile galleria. Non è la fusione tra Ds e Margherita che ha innescato questo circolo vizioso. E’ per uscire da questo circolo vizioso, al contrario, che Ds e Margherita hanno deciso di dar vita al Partito democratico. Se si vuole discuterne seriamente, infatti, non si può rimuovere la storia di questi ultimi quindici anni. E soprattutto non si può dimenticare che in politica non sono le parole a definire le cose, ma le cose a definire le parole. L’identità di un partito non è definita dal suo nome, dai suoi simboli o dalla sua retorica, ma dalla sua politica.
Alla costituente socialista annunciata da Enrico Boselli durante il congresso dello Sdi dovrebbero partecipare formazioni e dirigenti che in questi quindici anni sono stati ininterrottamente su fronti opposti, chi al governo con Silvio Berlusconi e chi all’opposizione con Fausto Bertinotti. I soli socialisti di Boselli hanno promosso liste comuni prima con i Verdi di Alfonso Pecoraro Scanio, poi con Ds e Margherita nella lista dell’Ulivo e infine con i Radicali di Marco Pannella. Ora criticano la “fusione fredda” del Partito democratico assieme al correntone diessino di Fabio Mussi, che si dice interessato tanto alla costituente socialista di Boselli quanto alla costituente comunista di Bertinotti. Dal ’98 al 2001 simili difensori della coerenza ideale e identitaria sono stati al governo con Boselli, all’opposizione da sinistra con Bertinotti e all’opposizione da destra con De Michelis. Dal 2001 al 2006 le parti si sono invertite, Boselli e Bertinotti sono stati insieme all’opposizione, De Michelis è stato al governo con Forza Italia, An e Lega. Non si vede perché oggi la parola “socialista” dovrebbe improvvisamente rivelarsi capace di unire quel che la politica, in tutti questi anni, ha irrimediabilmente diviso. In tutti questi anni, al contrario, Ds e Margherita sono stati insieme al governo e insieme all’opposizione. Ed è da qui – dall’azione politica concreta condotta nel paese e dalla concretissima lotta per l’egemonia tra riformisti e radicali condotta all’interno della coalizione – che è emersa la possibilità e l’esigenza dell’unità tra i due partiti.
Questa è la ragione per cui la costituente socialista con Mussi e De Michelis, verosimilmente, non avrà miglior sorte del Girasole con i Verdi, della Rosa nel Pugno con Pannella o di tutti i possibili incroci di laboratorio – questi sì! – che i custodi dell’identità socialista potranno inventare, nel loro irrefrenabile feticismo lessicale. E a conferma del fatto che non è l’identità di un partito a definirne la politica, ma la politica a definirne l’identità, sta una banale constatazione: i partiti politici morti e sepolti, come il partito bolscevico di Lenin o il partito fascista di Mussolini, evidentemente, oggi non hanno più una politica, e non possono in alcun modo averla, perché sono morti. Ma il fatto di essere morti e sepolti non impedisce loro di possedere ancora oggi una fortissima identità. Anzi, oggi molto più che in passato, quando erano vivi e immersi nel loro tempo, la loro identità appare come un cristallo purissimo di perfetta e levigata coerenza, priva di tutte le incrostazioni e le contraddizioni che vengono dall’attrito quotidiano con la realtà e con il mondo circostante. Ma quella condizione che a taluni, evidentemente, appare ammirevole e invidiabile, non è altro che rigor mortis. E’ l’imperturbabile coerenza delle salme. E’ la bellezza immutabile e incorruttibile delle lingue morte. E’ lo sguardo fiero dei condottieri di marmo, con il loro vasto seguito di piccioni. E non c’è ragione di invidiarla.