Il governo Prodi vive da tempo una sorta di crisi permanente. Il buon esito della trattativa sulle pensioni non cancella questo dato di fatto e non basta nemmeno a nasconderlo, come dimostrano le tensioni che l’accordo continua a generare nell’Unione, conseguenza di un male più profondo che da tempo corrode il centrosinistra. E che non può essere ricondotto semplicemente alla banale formuletta dei “problemi di comunicazione”.
Le scelte compiute dall’esecutivo e le debolezze strutturali della maggioranza spiegano molto di quello che è accaduto in questi mesi, ma non tutto. La crisi è esplosa dopo la presentazione della finanziaria 2007. Una finanziaria che i principali partiti del centrosinistra hanno rivendicato con forza, senza che al loro interno emergessero significativi dissensi, al di là delle posizioni assunte da Nicola Rossi e pochi altri parlamentari riuniti attorno al cosiddetto tavolo dei volenterosi. Dunque non è vero che a compromettere il rapporto con l’opinione pubblica siano state le divisioni nella maggioranza. Semmai è vero il contrario: è la reazione dell’opinione pubblica che ha alimentato quelle divisioni, che a loro volta hanno ulteriormente allontanato l’opinione pubblica, innescando così un circolo vizioso da cui l’Unione non sembra capace di uscire. Il ruolo non certo neutrale assunto in questo gioco dal sistema dell’informazione non è una novità. Il problema è la fragilità del centrosinistra, che la debolezza della maggioranza in Senato rende soltanto più evidente, ma che al fondo risiede in una debolezza culturale. Pertanto la denuncia della pesante eredità lasciata dal centrodestra – un’eredità che non è mai stata criticamente elaborata – non spiega e non risolve nulla delle attuali difficoltà. La crisi ha dunque radici più antiche delle attuali difficoltà del governo. E quel Partito democratico che avrebbe dovuto costituirne la via d’uscita rischia ora di esserne risucchiato.
La crisi di rigetto che ha colpito il Pd sin dal suo primo affacciarsi nel dibattito pubblico è stata temporaneamente arrestata dalla candidatura di Walter Veltroni, salutata con grande favore da tutti i maggiori quotidiani e da tutti i sondaggi. Anche ammesso che da questi si possa trarre una rappresentazione della realtà minimamente attendibile, però, tale improvvisa inversione di rotta nel rapporto tra Partito democratico e opinione pubblica non è stata accompagnata da un’analoga svolta nel rapporto tra opinione pubblica e governo.
Dalla finanziaria ai Dico, dalla politica estera alla riforma delle pensioni, il dibattito gira sempre intorno alla stessa domanda, e cioè se sia possibile una coalizione che vada dai cattolici democratici alla sinistra radicale. Ma intorno a questa domanda, che è senza dubbio la domanda centrale, il dibattito ha spesso girato a vuoto. Il problema non sta nell’astratta possibilità di conciliare due diverse visioni del mondo, ma nel punto di caduta concreto di quel compromesso, che non può mai essere predeterminato. Il problema del Partito democratico e il problema del governo sono pertanto due facce della stessa medaglia. E scontano entrambi gli effetti di quella malattia più profonda di cui dovrebbero essere la cura, che potremmo chiamare l’osteoporosi del nostro sistema politico.
E’ l’intero sistema politico, infatti, a essere in corrosione. Troppo a lungo è rimasto esposto alle piogge acide che da anni battono incessantemente i pochi edifici rimasti in piedi dal terremoto del ’92, minando alle fondamenta la stabilità di tutte le principali forze politiche. Il Partito democratico nasce come risposta di sistema a questa crisi di sistema. Una risposta resa obbligata dalla manifesta impercorribilità di altre strade, che la sinistra riformista ha tentate tutte in passato, con maggiore o minore successo, ma senza mai riuscire a ridefinire nuovi equilibri. Una risposta che nei cinque anni di opposizione al governo Berlusconi è stata sovrastata, però, da una micidiale mescolanza di radicalismo e opportunismo.
Nella lunga notte dei riformisti il centrosinistra è piombato così in uno stallo strategico, che ha imposto sempre nuovi passaggi intermedi alla costruzione del Partito democratico, fino a rimandarne la costruzione a dopo le elezioni. Si è imposto così all’intera coalizione, una volta sterilizzato quello che avrebbe dovuto esserne il principale fattore di rinnovamento, il segno grottesco della “restaurazione ulivista”. Il deludente risultato elettorale, conseguenza di simili premesse, ha fatto il resto.
Il voto del 14 ottobre sul segretario e sull’assemblea costituente del Pd è dunque il passaggio decisivo di questo percorso, obiettivamente estenuante, alla ricerca di un punto di appoggio su cui fare leva per avviare la riforma del sistema politico. Un percorso in cui i riformisti si sono trovati troppo spesso isolati. E pertanto, troppo spesso, sono stati costretti a ripiegare.
E’ a questo scopo che in una fase tanto delicata abbiamo deciso di riprendere il cammino interrotto con questo sito internet alcuni mesi fa, dopo avere constatato come l’obiettivo per cui avevamo speso tante parole, la costruzione di un partito riformista che nascesse dall’unione di Ds e Margherita, fosse finalmente all’ordine del giorno. La ragione sociale della nostra iniziativa era allora, per dir così, felicemente cessata. E oggi se ne impone una nuova.
Resta da vedere, infatti, quale fisionomia assumerà il nuovo partito e quale ruolo sarà capace di svolgere nella riforma del sistema politico. E’ un passaggio, questo, che non può essere aggirato con la pura e semplice ingegneria istituzionale (che tuttavia, lo sappiamo, non è mai “pura e semplice”) e che richiede di guardare all’intera vicenda degli ultimi quindici anni con maggiore distacco di quanto finora non sia stato possibile, per il peso che le contraddizioni rimosse dal 1992 in avanti hanno continuato a esercitare sugli attori e sugli osservatori della scena politica. Un passaggio che impone di guardare all’intreccio tra giustizia, finanza e informazione per come si è concretamente sviluppato in questi anni e per come concretamente continua a condizionare la politica, uscendo dalle formule di rito sulla sacrale indipendenza della magistratura, del mercato e dell’informazione. Questo è il tempio che oggi occorre profanare, se si vuole dare realmente la possibilità e lo spazio per una politica riformista in questo paese, che non può non significare anche in Italia quello che ha sempre significato in ogni parte del mondo: una politica di riforme democratiche che investano la conformazione del mercato, l’organizzazione della giustizia e il sistema dell’informazione.
E così abbiamo deciso di riprendere la vecchia bandiera – Left Wing – per farne qualcosa di nuovo. Meno ossessionati da tutti gli ostacoli e le svolte del sentiero, ma più attenti alla direzione del cammino. Per fare qualcosa di diverso dal passato, come diversi saranno i contributi e le opinioni di coloro che ci scriveranno, ma con lo stesso spirito.