C’è chi ha staccato il telefono, chi ha deciso di non acquistare i quotidiani per tutto il fine settimana, chi ha scelto di tenere spenta la televisione, perdendosi anche il gran premio di Formula Uno o il film di prima serata – la prudenza non è mai troppa – e chi ha evitato persino il contatto con amici e conoscenti. C’è chi è caduto per avere accettato incautamente un foglio di freepress all’ingresso della metropolitana, chi per aver scaricato la posta elettronica per motivi di lavoro, chi perché un amico creduto fidato o un vicino di tavolo al ristorante ha lasciato cadere l’informazione, sbadatamente e irrimediabilmente, tra una chiacchiera e l’altra.
J.K. Rowling cominciò a pubblicare la saga di Harry Potter nel 1997, dieci anni fa. Alle 00,01 ora di Greenwich di sabato 21 luglio 2007 nelle librerie di tutto il mondo è uscito il settimo e conclusivo capitolo della storia, dopo un’attesa decennale snervante e figlia della globalizzazione, fatta di sapiente marketing, versioni cinematografiche, siti web dedicati, forum nei quali per anni sono state formulate e discusse, in tutte le lingue del mondo, le più ardite supposizioni a proposito di come la Rowling avrebbe condotto a termine la storia del giovane mago.
Una simile mole di informazione è stata a lungo la delizia dei milioni di appassionati, soprattutto nei due anni trascorsi tra le uscite del sesto e del settimo romanzo. Ma per quelle stesse persone, negli ultimi giorni, il meccanismo si è fatto assai minaccioso. Con lieve anticipo rispetto al disimballaggio degli scatoloni sigillati contenenti le copie di “Harry Potter and the Deathly Hallows” (in italiano il romanzo sarà quasi certamente intitolato “Harry Potter e le reliquie della morte” e sarà nelle librerie il 5 gennaio 2008), quotidiani, notiziari televisivi, programmi radiofonici si sono lanciati nella corsa allo svelamento dell’epilogo tanto atteso.
Si potrebbe ragionare lungamente su come in un mondo che trabocca informazione l’abbondanza possa costituire, sorprendentemente, un grave problema. Non sempre, verrebbe da pensare, l’informazione totale e onnipervasiva è un bene. Non è una questione di censura. È, piuttosto, una questione di buona creanza, che riguarda le regole del vivere civile. È la differenza che passa tra quegli organi di informazione che, sempre a proposito di Harry Potter, hanno sparato il titolo contenente la soluzione del mistero in prima pagina o in home page o nei titoli del notiziario, senza dare al lettore alcuna possibilità di difesa, e quelli che hanno avvertito il loro pubblico con espedienti semplicissimi: un breve annuncio, un link, un paio di righe che dicessero qualcosa come “Attenzione: stiamo per rivelare la conclusione della trama. Chi non volesse conoscerla cambi canale, non clicchi, non legga oltre”.
Buona creanza, regole, civiltà: tutte cose che, in altri campi della vita associata, hanno partorito nei secoli apparati e procedure sacrosante e preziosissime come la tutela della privacy, l’avviso di garanzia, la presunzione di innocenza, l’idea secondo la quale è nei tribunali e in seguito ai processi che si determina la colpevolezza di un imputato e non sulle piazze, sulle pagine dei giornali, nei pronunciamenti ex cathedra o nelle riunioni di partito dedicate all’autocritica obbligatoria. E questo è un problema che riguarda, letteralmente, tutti. Non solo i fan di Harry Potter.