Il sindaco di Roma apre al Nord la sua campagna per l’elezione a segretario del Partito democratico, partendo da quell’insieme di problemi che generalmente, da qualche tempo, si è preso a chiamare “questione settentrionale”. Si tratta di questioni molto diverse e ampiamente trattate in questi anni: sicurezza, fisco, burocrazia, immigrazione, impresa, infrastrutture, formazione, meritocrazia. Questi sono i temi sensibili per le persone che vivono e lavorano nelle regioni settentrionali, su cui da parte di Walter Veltroni non mancano giuste autocritiche e giustissime critiche al centrodestra, in un crescendo che suscita però qualche perplessità. Perché lascia senza risposta la domanda più semplice: quali politiche sono state sin qui elaborate, per il Nord del paese, e chi ne porta la responsabilità?
Si ha la sensazione, osservando le prime mosse del sindaco, che la ricostruzione offertagli dai suoi consiglieri non gli abbia permesso di affrancarsi da una lettura un po’ datata e sostanzialmente continuista delle vicende accadute in queste regioni. Il rischio è che, ancora una volta, l’iniziativa dei riformisti si riveli tardiva, se non subalterna.
In Lombardia accadono fenomeni nuovi, che non possono essere catalogati dentro la logica dei concetti chiave del confronto politico “destra contro sinistra” degli anni Novanta. Al Nord, e soprattutto in Lombardia, la profonda sfiducia verso i partiti – in particolare, ma non solo, verso i partiti del centrosinistra – nasce dall’incapacità dell’amministrazione pubblica di rendere i servizi necessari, a fronte dell’alta pressione fiscale sostenuta dai cittadini. E questa è una condizione antica, che diviene però insopportabile nel momento in cui la domanda di autonomia dei corpi sociali primari e intermedi (famiglie, volontariato, imprese) va allargandosi a dismisura, sino a travolgere ogni forma di rappresentanza che si proponga, o venga percepita, come in continuità rispetto alla fotografia sociale ed economica dei decenni passati.
Più che la lotta contro l’aumento delle tasse, gioca un peso fondamentale la capacità di far arretrare lo spazio pubblico a vantaggio della domanda di autonomia della società (che porterebbe con sé la diminuzione delle tasse). Più che la denuncia della mancanza di infrastrutture, ormai riconosciuta da tutti, pesa la capacità di proporsi come coloro che rimuovono gli ostacoli che ne hanno provocato i ritardi (moltiplicazione dei centri decisionali, condizionamenti degli enti minori, ipocrisie politiche e ricatti delle forze radicali). Da questo punto di vista, si coglie agevolmente come una certa enfasi sul valore assoluto della concertazione sempre, comunque e con chiunque dica no, dalla Cgil ai No Tav, rappresenti un limite che nessun atteggiamento alla Rudolph Giuliani potrà mai compensare. A ben vedere, l’ondata di distinguo dal tradizionale solidarismo di sinistra, in particolare all’indomani della vittoria di Nicolas Sarkozy in Francia, se interpreta un malessere vero, non coglie come il tema sia percepito in modo diverso dai cittadini che si rapportano tutti i giorni con le decina di migliaia di lavoratori stranieri regolari, onesti e capaci. La dialettica interna che ne risulta, all’interno del Partito democratico, rischia così di ridursi a uno scontro tra gli invecchiati profeti di un radicalismo inconcludente e i nuovi campioni di un “nordismo de sinistra” che non corrisponde già più ai nodi vissuti nella coscienza del paese reale.
La politica deve innanzi tutto recuperare credibilità. E lo sforzo più importante in questa direzione, al Nord, spetta proprio al centrosinistra, vissuto non a torto come più conservatore sul versante decisivo del rapporto pubblico-privato, condizionato com’è dalle forze radicali meno favorevoli allo sviluppo delle attività economiche. Una simile ostilità, però, non risparmia il centrodestra tradizionale, che non innova sul versante dell’efficienza della macchina amministrativa, perpetua l’indecisionismo e tradisce le aspettative sulla rivoluzione liberale tante volte annunciata, senza che abbia mai prodotto esiti visibili.
Ecco perché non si varca il Po se non si costruisce la fisionomia di una classe dirigente credibile, capace di organizzare nel modo più efficiente il contesto in cui si possano meglio sviluppare le attività umane. Ma costruire una simile classe dirigente significa anche abbandonare linguaggi, riti e comportamenti del passato. La corsa dei gruppi dirigenti all’accreditamento presso il sindaco di Roma, da questo punto di vista, appare sospetta. Anche per le notorie responsabilità sugli accadimenti trascorsi cui si accennava.
Le aspettative verso il Partito democratico possono consumarsi in breve tempo se a queste non corrispondono schiettezza nell’analisi e innovazione (dall’antropologia alla semantica) nella proposta. Non pare proprio necessario, pertanto, l’abbraccio del pugile suonato in attesa del gong, quale rischia di essere la confessione circa le buone ragioni degli avversari. Tanto meno il maldestro tentativo di strappare loro parole e simboli che alla sinistra, comunque, non appartengono. Tutto si può imputare ai cittadini del Nord, tranne il non avere capito quanto tutto il paese abbia bisogno di un recupero di autorevolezza da parte della politica, una politica liberata da legami ideologici e corporativi, e somigliante al mondo più di quanto non sia oggi. In fondo, di Sarkozy colpisce di più la libertà di linguaggio, pensiero e azione, che non l’impronta decisionista inutilmente osteggiata dai suoi avversari come un pericolo per la democrazia.