Sui fondi di private equity si è scritto molto. Qualcuno li celebra come paladini dell’efficienza globale, altri li percepiscono come entità inquietanti pronte a ghermire ogni possibile preda per fare profitti “a qualsiasi costo”. Come di consueto, il manicheismo non aiuta. Da un lato, infatti, i fondi di private equity possono favorire gli investimenti di imprese in fase di start-up, caratterizzate da fatturati simbolici e da strutture finanziarie non autosufficienti; dall’altro, però, è comprensibile che la loro potenza di fuoco possa far paura, e indurre a riflettere. Di fatto, i fondi moltiplicano le risorse raccolte – talvolta già molto ingenti – grazie al ricorso alla leva del debito; una leva che viene utilizzata per massimizzare i ritorni economici del fondo stesso (e le retribuzioni dei manager che ne curano la gestione).
Il quadro si complica quando, accanto agli investitori istituzionali privati tradizionali, iniziano ad affacciarsi nei fondi investitori di natura un po’ diversa, come nel caso dell’operazione Cina-Blackstone. Non è una novità, ed è anzi per molti aspetti desiderabile, che una quota delle riserve in valuta estera accumulate da un paese vengano reinvestite all’estero. Peraltro, a causa dei perduranti squilibri di natura macroeconomica, la distribuzione mondiale delle riserve inizia a destare qualche preoccupazione, con la Cina che ormai ne detiene per circa 1.300 miliardi di dollari.
E così qualcuno ha iniziato a pensare che, perlomeno in prospettiva, la questione dell’allocazione delle risorse rivenienti dall’accumulo di riserve cinesi possa interessare da vicino l’evolversi degli stessi equilibri del capitalismo occidentale. Viste le somme in giuoco, basterebbero spostamenti di risorse “al margine”, nemmeno caratterizzati da chissà quale grado di subitaneità, per generare inquietudini.
I tre miliardi di dollari investiti dalla Cina in Blackstone potrebbero essere solo l’inizio. Non molto tempo fa è stato, tra gli altri, Massimo Mucchetti, dalle colonne del Corriere della Sera, a dare voce a tali inquietudini (“Pechino spa – Il Capitalismo di Stato e l’Europa in difesa”, 30 giugno 2007). E’ innegabile che la misura degli investimenti finanziari potenzialmente effettuabili da parte del governo cinese (tramite i propri bracci operativi) in fondi come Blackstone possa far temere, prima o poi, il concretizzarsi di un peso crescente nell’ambito dei processi decisionali relativi ai fondi stessi e alla gestione delle società da essi partecipate. Insomma, come è stato scritto, la tradizionale etichetta “Made in China” potrebbe trasformarsi in “Owned by China”.
E’ vero che le riserve ufficiali di Pechino – già a livelli record – continuano a crescere in conseguenza degli ampi avanzi commerciali, e vanno impiegate in maniera fruttuosa ed efficiente. Tanto per dare un ordine di grandezza, degli oltre 1.300 miliardi di dollari Usa cui ammontano, la quota di quelle riserve (per ora) destinata a essere investita all’estero è di 300 miliardi. Peraltro, può venire il sospetto che tale “massa d’urto finanziaria” possa anche essere utilizzata per contribuire alla proiezione politica della Cina all’estero. Oggi è il primo investimento “di assaggio” di 3 miliardi di dollari in Blackstone (il 10% circa delle azioni senza diritto di voto); domani – chissà – potrebbe seguire una pattuglia più o meno folta di sovereign funds, fondi sovrani controllati direttamente non solo dalla Cina, ma anche dalla Russia, dall’India, da Singapore piuttosto che dagli Emirati Arabi o da qualche altro paese del Medio Oriente. Fondi la cui gestione potrebbe essere caratterizzata da un vettore di obiettivi complesso, e forse non limitato al semplice ritorno economico delle somme investite.
Fantapolitica? Forse no, se il cancelliere tedesco Angela Merkel già si appresta a “pensare a misure legali per limitare particolari acquisizioni in certe condizioni”, in quanto “siamo chiamati ad affrontare fondi pubblici, a noi prima sconosciuti, dinanzi ai quali non possiamo reagire come se fossero gestiti da privati”.
La stessa Commissione europea avrebbe in animo di esaminare, nel prossimo futuro, diversi “scenari” di regolamentazione dei fondi controllati da paesi terzi, intenzionati ad acquistare pacchetti azionari in società europee.
E già si ipotizza un equivalente europeo dell’americano Committee on Foreign Investment, che può consigliare il presidente di bloccare investimenti diretti stranieri dalle “motivazioni sospette”, ovvero la messa a punto di meccanismi di reciprocità. Come sottolineato da Angela Merkel, si è davanti ai prodromi di una scenario nuovo, il cui sviluppo va monitorato con attenzione, senza lasciarsi andare a fobie ingiustificate, ma considerando anche i potenziali rischi della nuova situazione.
Resta lecita, però, la domanda se davvero vi sia una differenza rispetto agli investimenti che le “major finanziarie”, di matrice generalmente anglosassone, effettuano in giro per il mondo in settori anche strategici. In linea puramente teorica, sarebbe possibile argomentare che JP Morgan, Goldman Sachs et similia sono tendenzialmente public company, e dovrebbero dunque orientare le proprie scelte in funzione non del vettore complesso di obiettivi di cui dicevamo prima, ma del “semplice” profitto.
Ora, a parte le discussioni non secondarie sul “tipo” di profitto perseguito e sugli effetti delle diverse definizioni, non si può non considerare che le istituzioni finanziarie internazionali che vanno per la maggiore sono più o meno strettamente connesse a un sistema di potere politico-economico, tant’è vero che non è infrequente osservare passaggi dal top management delle stesse a posizioni di governo, e viceversa. Taluni osservatori non hanno mancato, in passato, di sottolineare tale aspetto relativamente ad entità come, giusto per fare un esempio, il fondo Carlyle. Del resto, il top management di istituzioni del genere viene spesso reclutato nelle file degli “old boys”, ovvero nell’ambito di un social network relativamente ristretto e forse talvolta anche “a meritocrazia limitata”.
Naturalmente si potrebbe sempre replicare che se quelle istituzioni fanno parte di un sistema di potere, con propri equilibri interni da definire, nel caso degli “state owned fund”, magari espressione di un governo non eletto democraticamente (si consenta un uso ampio del termine), le istituzioni rappresentano invece “il” sistema di potere e, posti gli attuali squilibri a livello macroeconomico, possono avere accesso a risorse ancora più ingenti delle loro “controparti” private, e crescenti nel tempo al di là della fiducia di un pool di investitori.
Sono sufficienti queste considerazioni per invocare una diversità di natura ontologica fra un investimento della Cina e uno di (citiamo a caso) Goldman Sachs? Rispondere a questa domanda richiederebbe una lunga discussione. Una discussione che forse, prima o poi, bisognerà cominciare. Certo è auspicabile che il tema del private equity divenga oggetto di maggiore attenzione, studio e dibattito anche in Italia, e a tutti i livelli.