La questione dei cosiddetti fondi sovrani – gli investimenti all’estero di capitale pubblico, per lo più cinese o delle “tigri asiatiche” – è un logico sviluppo della nuova Bretton Woods informale, stabilitasi tra Stati Uniti e Cina sin dal decennio scorso, in barba ai comunicati finali dei vari G7 e G8. Dopo oltre dieci anni di elevatissimi tassi di crescita e surplus commerciali, la liaison finanziaria secondo la quale la Cina tiene svalutato il renminbi, accumula impressionanti riserve valutarie e le reinveste in titoli del tesoro americano, consentendo agli Usa di continuare a consumare voracemente merci cinesi e di tutto il mondo senza dover svalutare proporzionalmente il dollaro né comprimere la domanda interna, era destinata a compiere un salto di qualità. Lo stadio successivo è quello dei sovereign fund, la partecipazione diretta dei capitali asiatici al sistema multinazionale in lingua inglese e valuta americana del private equity.
A partire dalla Germania, dove già allignava una solida diffidenza verso gli appetiti “liberalizzatori” del capitale finanziario d’oltremare, la comparsa dei fondi sovrani ha innescato un vivace dibattito che ha investito l’Ue. Nel corso del semestre di presidenza tedesca, infatti, Angela Merkel ha sollevato la questioni in ripetuti interventi e – da ultimo – ha provato a far adottare all’Europa misure precauzionali e regolamentari in materia. Il tentativo, messo in atto al vertice del Baltico in giugno, è fallito per via del solito barrage di britannici e “nuovi europei”, ma la questione è stata giustamente posta in sede comunitaria. Allo stadio attuale, infatti, i fondi sovrani costituiscono un problema essenzialmente per l’Europa.
Il sistema economico che presenta lo scarto maggiore tra ricchezza dell’intelaiatura strutturale e vulnerabilità alle incursioni finanziarie è quello europeo. Uno scarto che si deve al difetto di sovranità economica dell’Unione e alla torsione liberista che è stata impressa alle diverse economie nazionali del vecchio continente per poterle integrare nel mercato unico. L’incompiuta integrazione del mercato interno e la mancata attribuzione di sovranità economica all’Unione (in materia di spesa pubblica, finanza, valore della moneta, politica industriale) sono le fragilità che l’attacco della finanza speculativa globalizzata mette impietosamente a nudo.
A fronte di tali difficoltà si sono proposte ricette diverse. Su tutte si staglia quella di Lawrence Summers, uno degli ispiratori della politica economica clintoniana negli anni Novanta, secondo il quale l’appartenenza diretta dei fondi ai governi li renderebbe sospetti, in quanto animati non dalla ricerca del “valore per gli azionisti”, ma da intenzioni geopolitiche; tuttavia, se i governi, come nel caso della Cina con Blackstone, sono disposti a far gestire i loro soldi da fondi americani, va da sé che il sospetto svanisce e si ripristina la trasparenza del mercato. L’Economist suggerisce invece agli europei di tutelarsi realizzando il massimo di contendibilità dei mercati nazionali e imponendo la trasparenza ai soggetti finanziari acquirenti: una soluzione che sembra fatta apposta per spalancare la proprietà dell’industria europea alla finanza “perbene” (quella che legge e scrive l’Economist per esempio). A questa ricetta si aggiunge la postilla di Peter Mandelson che, pur di evitare decisioni europee, suggerisce che ciascun paese stili un proprio elenco di imprese strategiche, da rendere non scalabili (almeno se in sede europea nessuno contesta l’elenco come lesione della concorrenza). A questo “cosmopolitsmo nazionalista” della City e di Wall Street fa da contrappunto il rigurgito protezionista di un governo francese che non esita a indebolire il vincolo europeo pur di difendere il controllo sui campioni di casa propria. Una ricetta che potrebbe consentire alla sola Francia (e alla Germania) di conservare, per qualche anno, un nucleo di sovranità sulle proprie imprese.
Il punto di vista europeo è però un po’ diverso. Fondi sovrani e private equity sono solo forme diverse di traduzione in strumenti di penetrazione finanziaria delle volontà di potenza di diversi establishment politici. Che siano democratici o antidemocratici, animati dalla ricerca del profitto o da ragioni geopolitiche, non è possibile stabilire a priori in quali circostanze l’acquisizione del controllo di imprese europee da parte di questi soggetti sia conveniente per l’Unione.
E’ chiaro che un rimedio plausibile sarebbe quello di imporre quantomeno un vincolo di reciprocità, come suggerisce Massimo Mucchetti sul Corriere della Sera del 28 luglio, per potersi corteggiare o minacciare su basi di parità. Ma i singoli paesi europei non appaiono in grado di giocare con efficacia questa carta, impacciati come sono dal difetto di sovranità e dall’eccesso di liberismo della normativa europea. E’ necessaria una dottrina continentale sulla materia, se non si vuole disarticolare l’Unione, e fa bene la Merkel a non farsi distogliere da questo proposito.
Su quale piattaforma si può dunque fondare una via europea all’investimento finanziario concentrato di capitali privati pulviscolari? Per rispondere a questa domanda bisogna innanzi tutto sgombrare il campo dalle diffidenze ideologiche. E’ un elemento progressivo dello sviluppo contemporaneo che ci sia questa eccedenza di risparmio. Un surplus che, ben indirizzato, può consentire di far fronte a opportunità di investimento di dimensioni e orizzonti temporali senza precedenti. La mobilità di queste ingenti masse di denaro “anonimo” consente inoltre alle imprese uno straordinario dinamismo, sdrammatizzando la questione della proprietà (con tutte le sue implicazioni) e prospettando al sistema una maggiore flessibilità in tutti i campi: evoluzione tecnologica, cambio di ragione sociale e dei dirigenti d’impresa, ingresso di nuovi attori, nascita di imprese innovative, finanziamento delle idee, valorizzazione dei talenti e condivisione di profitti e poteri dell’impresa.
Il problema principale connesso alla finanziarizzazione, dal punto di vista europeo, riguarda la concentrazione strategica dei fondi sulla creazione del maggior valore delle azioni nel minor tempo possibile. Un comportamento efficiente nel contesto morfologico del capitalismo d’oltremare che però, se applicato al sedimento storico dello sviluppo europeo novecentesco, tende a spiazzare il contenuto tecnologico e industriale dell’investimento, accentuandone la vocazione speculativa. Nei mercati periferici (quelli centrali sono ben difesi) passaggi di denaro di questo tipo, quando si ritirano lasciano spesso imprese indebitate, mentre la ricchezza si trasferisce verso le centralità del sistema finanziario. L’Europa ha quindi in primo luogo la necessità di dotarsi di fondi propri, di farsi a sua volta centro di una polarità finanziaria globale, per uscire dall’alternativa secca tra proprietà familiare, pubblica o imperniata sulle banche, e concedersi l’occasione di avere assetti proprietari più fluidi, senza vedere depauperata la sua ricchezza industriale.
Bisogna porre fine a una dialettica ottocentesca che contrappone i liberisti agli statalisti, e assegnare al ruolo pubblico una funzione più duttile e appropriata, sia nella veste di proprietario – se serve – sia in quella di regolatore, che non vuol dire arbitro della concorrenza, ma architetto della qualità della vita che i mercati riescono a offrire. Tutti i mercati sono regolati e tutti sono strategici. E l’uomo è (in certa misura almeno) il prodotto della loro interazione, e della cultura che in ciascuna epoca storica corrisponde allo stato di quei rapporti. Materia politica per eccellenza e di sicuro interesse pubblico!
Oltre a costruire un’intelaiatura finanziaria integrata, in Europa occorre dunque indicare quali sono gli obiettivi su cui tarare il sistema di regole della finanza continentale. E quali scopi premiare – disponendo di una leva fiscale europea – per incentivare comportamenti virtuosi degli operatori: dagli investimenti a lungo termine al favore per il finanziamento della ricerca, dal vantaggio per la capitalizzazione a scapito del debito al premio per le esternalità positive degli investimenti in materia, per esempio, di occupazione o di tutela ambientale. Le obiezioni dei liberisti a questi argomenti sono note. Quelle di carattere teorico si riducono in ultima istanza alla proclamazione della superiore razionalità del mercato concorrenziale rispetto alla decisione politica. E’ moneta corrente solo nei paesi periferici e non serve qui argomentare.
C’è invece un’obiezione controfattuale di certo più significativa: essendoci libertà di movimento dei capitali, se si rendono meno convenienti gli investimenti in Europa con un eccesso di regolazione e di fiscalità, vista anche la minore crescita economica che ci contraddistingue, i risparmi prenderanno altre strade, oppure i tassi europei schizzeranno alle stelle deprimendo ulteriormente la crescita.
A questo si può rispondere così: tra costo del lavoro, pressione fiscale, welfare pervasivo e dieci anni di semistagnazione, tutto questo dovrebbe essere già accaduto. E invece l’euro è fortissimo e largamente richiesto, i tassi in Europa sono di due punti inferiori a quelli degli Stati Uniti e capitali che vogliono acquisire le imprese europee non mancano. I motivi di questo apparente paradosso sono due. Il primo, riferendosi alla relazione tra Ue e Usa, si può dire così: “Se Atene piange Sparta non ride”. L’altro dà invece motivo di qualche speranza in più. Da innumerevoli casi di successo si evince infatti che l’integrazione europea, in tutte le sue forme, consente di mettere a frutto potenzialità di sviluppo che si innescano solo attivando grandi economie di scala: dall’euro all’Airbus, al miracolo realizzato dai nostri cugini mediterranei grazie all’uso centralizzato dei fondi strutturali.
Ce n’è a sufficienza, quindi, per auspicare non solo una regolamentazione europea degli investimenti finanziari, ma anche un approccio dell’Unione meno difensivo. Nel riequilibrio sussultorio dei rapporti di forza globali e negli squilibri interni al complesso sistema occidentale si scorge, per chi voglia vederlo, un bisogno di regolazione tale da far apparire realmente a portata di mano una nuova Bretton Woods. Degna di questo nome, però, e più capace di vedere il mondo com’è. O com’è diventato.