C’era una volta una signora squattrinata, nota come Joanna Rowling, che in treno ebbe un’idea. In dieci anni la distribuì su sette libri, sempre più diluiti e istericamente attesi, fino al delirio del 21 luglio scorso, quando tutte le librerie si sono aperte nel cuore della notte per consentire agli italiani impazienti – e magicamente padroni della lingua inglese – l’acquisto di “Harry Potter and the Deathly Hallows”. Me compresa, naturalmente. E adesso che so come va a finire, non ho nessuna intenzione di rivelarlo ai tre rimasti ignari. Spoiler è una parola orribile e soprattutto: non è importante. Quello che conta, questa volta, è il Viaggio.
A occhio: non memorabile. Ci sono un mago allampanato, una strega secchiona e un eroe predestinato che camminano, camminano, camminano. Smontano una tenda e la rimonatano, poi mangiano (o non mangiano), di conseguenza scherzano (o bisticciano) sui massimi sistemi. A un certo punto il predestinato compie una solenne stupidaggine e qualcuno accorre dall’alto a rimediare il danno. Repeat. Per trecento pagine di puro atto di fede. È il marketing, bellezza. Quando cominciano finalmente a succedere cose, il sollievo è tale che il lettore medio si abbandona a catartici entusiasmi e non si accorge di avere appena perso ore d’estate non sull’ennesima – noiosissima – variazione della “Compagnia dell’anello”, ma sulla prima stesura del più importante capolavoro fantasy contemporaneo. Per acclamazione: il discorso torinese del mago Walter.
Del resto anche Veltroni un giorno ebbe un’idea. O forse il suo era più un sogno. Comunque: una storia in attesa di lieto fine. E come Harry, solerte si è messo in cammino per ridare speranza ai nuovi italiani, ai ragazzi di questo (o quel) Paese convinti (…) che il futuro faccia paura, che il loro destino sia l’insicurezza sociale e personale. Certo, al posto di Ron e della sublime Hermione, lui ha Piero Fassino e Francesco Rutelli, meno avventurosi ma altrettanto in grado di guidarli all’appuntamento decisivo, insieme a Romano Prodi (Dumbledore d’accatto) che non ha mai smesso di crederci e di lavorare per questo. Ciononostante il nostro eroe ha continuato a lottare per la risoluzione finale (che non è la salvezza del mondo ma il Partito democratico). Anche quando pareva difficile, quando era considerata lontana e impossibile. Perché la differenza, si sa, può farla solo l’Amore. E il mago Walter è caduto nel pentolone da piccolo.
Ognuno si predestina come può. Tuttavia, in virtù di questa nobiltà di cuore, Walter l’apprendista stregone dice che tutti gli hanno più volte dato atto di non aver mai partecipato a questa (o quella) degenerazione del confronto. Da che saga è saga, d’altra parte, è proprio nella determinazione a continuare così, anche unilateralmente, la chiave del successo sulla profezia. O sulla sondaggeria, che poi è uguale. I buoni vincono perché sono ostinati ai limiti del capoccione, per questo le favole piacciono anche ai grandi: Ottimismo e Immedesimazione. E pure una passeggiata disperante diventa meraviglioso viaggio collettivo; la tenda da montare è una casa più grande, con amici nuovi e tante personalità. E se vi sembra un film di Salvatores è perché non avete pensato che qui c’è il mostro finale: gli avversari avvertano che molto sta cambiando e che essi stessi non potranno restare fermi. Che paura. Il senso della realtà è poco cinematografico, la storia serve solo se si può farne un film. E poi agghindarlo di gadgeteria assortita. Il mago Walter in questo è specialista: a ottobre inizia la raccolta delle figurine.