Quello sulla crisi del cinema italiano è un po’ come il dibattito sulla forma partito per chi si occupa di politica, un evergreen che rispunta sempre quando meno te lo aspetti. Questa volta la discussione è uscita dal circolo ristretto degli addetti ai lavori grazie a Ernesto Galli della Loggia che al tema ha dedicato un editoriale di fine agosto.
La sua tesi è semplice, forse non nuova, ma indubbiamente suggestiva: il cinema italiano soffre di una “crisi d’identità” che è specchio della crisi dell’intero paese, ma anche e soprattutto della crisi di quelle grandi visioni ideologiche che hanno segnato il Novecento e che in Italia hanno così profondamente influenzato la creazione artistica. La crisi dunque sarebbe figlia “dell’abbandono del populismo” e dell’approdo a quella democrazia che invece è da sempre “connaturata” al cinema americano.
Le risposte non sono mancate: da Lizzani a Bellocchio, da Olmi a Scalfari. E non c’è dubbio che il tema si presti a un dibattito di un certo interesse. Al tempo stesso, però, parlare di crisi del cinema italiano si presta a molte obiezioni: sul concetto di crisi, sull’idea di cinema e persino sul significato dell’aggettivo “italiano”. Ma cominciamo dall’inizio, dalla presunta crisi.
Se guardiamo ai film prodotti in questi ultimi anni sembrerebbe semmai di notare una certa vitalità del settore: emergono nuovi autori e nuovi attori, mentre i più affermati continuano a ottenere successo. Se guardiamo invece alla capacità di “narrare l’Italia” come vorrebbe Galli della Loggia, di “rivoluzionare il linguaggio” come vorrebbero Lizzani e Scalfari o addirittura di contribuire a invertire la “crisi dei valori” di cui parla Olmi, forse il problema c’è. Ma siamo sicuri che abbia senso, ancora oggi, ricordare con nostalgia i fasti del neorealismo o “intristirsi per il divario drammatico con ciò che l’odierno cinema italiano ormai non sa più dare”, come fa Pierluigi Battista? O non c’è in questo atteggiamento una grave distorsione prospettica, che porta a chiedere al cinema di oggi quello che si otteneva dal cinema di cinquant’anni fa, senza comprendere che il passaggio a una società sempre più complessa e aperta muta radicalmente la forma e la funzione stessa del cinema (e non solo)? E se ad essere in crisi non fosse dunque il cinema italiano, ma questa visione del cinema italiano? Insomma, se ad essere sbagliata fosse la domanda che si fa al cinema, e non la sua risposta?
Per capire meglio occorre forse interrogarsi sul secondo termine della definizione che è stata data, ovvero su cosa dobbiamo intendere quando diciamo “cinema”. Forse Bellocchio esagera nel dire che basta un cellulare per fare un film, ma è evidente che il monopolio della narrazione non appartiene più, e da tempo, al grande schermo. Basta l’esempio delle grandi serie tv americane (o delle nostre fiction) per capire come ormai la produzione di contenuti sia qualcosa di estremamente vario e articolato, che bisognerebbe evitare di considerare “altro” dal cinema. C’è più cinema (e più “narrazione” nell’accezione di Galli della Loggia) nel Twin Peaks di David Lynch o in E.R. che in tanti film d’autore. Come classificare altrimenti, per esempio, “La meglio gioventù” dell’autore (impegnato) Marco Tullio Giordana, pensato per la televisione e divenuto quasi per caso un (premiatissimo) successo cinematografico.
Questo naturalmente non significa che il cinema non c’è più, ma solo che quando ci si interroga sulla capacità della narrazione cinematografica di svolgere una funzione altra rispetto all’intrattenimento, bisogna sforzarsi di considerarla nelle diverse moderne forme della produzione e diffusione di contenuti. Ma soprattutto a non convincere è quell’aggettivo, “italiano”, perché l’idea di racchiudere il dibattito sul futuro del cinema nei confini nazionali rischia davvero di renderlo residuale. Soprattutto per chi pone la questione a un livello così alto: se oggi si vuole davvero tentare “una rivoluzione del linguaggio” forse bisognerebbe che gli aspiranti rivoluzionari cominciassero facendo lo sforzo di parlare in inglese.
I confini nazionali sono saltati da tempo tanto che nemmeno l’accesso ai contenuti oggi dipende più dalle scelte di chi li distribuisce: in questi giorni Mediaset ha trasmesso in prima visione le prime puntate di Heroes, nuova serie culto che sta spopolando in mezzo mondo, e che però in Italia molti hanno già visto per intero, scaricandola da internet durante la trasmissione in America e aggiungendo i sottotitoli preparati e diffusi gratuitamente da siti di appassionati.
Buona parte degli italiani sono cresciuti vedendo Blade Runner e Dawson’s Creek, X-Files e Apocalypse Now. E oggi non si “intristiscono” di fronte a una replica, perché se non trovano più X-Files, guardano Lost. E’ un male? Non credo, è solo il modo dell’Italia di oggi di essere parte del mondo di oggi. Per chi lo ha accettato, invece di produrre la tanto temuta colonizzazione culturale, il confronto con quei prodotti si è rivelato positivo. Come spiegare altrimenti il successo della fiction italiana, si tratti del commissario Montalbano o di Distretto di polizia, se non come la necessità di competere col prodotto americano? Fa specie trovarsi a spiegarlo, da sinistra, ad autorevoli editorialisti del Corriere della sera, certamente abituali lettori del professor Giavazzi.
Il cinema italiano, che non è un concetto metafisico ma la somma di intelligenze e professionalità spesso straordinarie, non è in crisi d’identità né di linguaggio. Fa il suo mestiere, che è quello di raccontare storie e attraverso le storie il mondo di oggi, con strumenti, forme e linguaggi che sono vari come vario è l’oggetto della sua attenzione. Semmai sembra trovarsi di fronte a un bivio, tra la scelta di rivendicare una riserva in cui riprodursi e fare la rivoluzione (il Cinema Italiano) e quella di misurare la propria capacità di raccontare su una scena più grande e difficile (il cinema). Tra la scelta di farsi fino in fondo industria e quella di continuare a coltivare un’idea romantica ancorata al tempo che fu: in questo sì, il cinema ricorda tanti altri settori del nostro paese.
Sembrerebbe una scelta obbligata, ma accettare l’idea che quella della produzione di contenuti è un’industria, e che l’industria è fatta da imprese, e che le imprese stanno sul mercato è una rivoluzione di non poco conto per il nostro cinema (ma anche qui sappiamo di poter contare su ben più autorevoli sostenitori di queste tesi, nel dibattito pubblico, o almeno ce lo auguriamo). Le ragioni di questa difficoltà hanno radici profonde, sono figlie da un lato della disillusione generata da un sistema bloccato da grandi monopoli pubblici e privati, dall’altro di una concezione del cinema d’autore che è sempre stata incline a rappresentarsi come indifferente alle logiche di mercato. E qui un peso non indifferente hanno avuto alcune scelte del passato, che invece di scardinare questa convinzione hanno contribuito a radicarla. Nella spesso celebrata età dell’oro del primo governo dell’Ulivo, per esempio, la scelta di finanziare direttamente la produzione di film che avessero valore culturale ha senz’altro garantito un periodo di grande produzione (grande per quantità, s’intende), ma ha finito per impoverire la capacità imprenditoriale del settore: che senso aveva affannarsi a costruire prodotti che avessero un mercato se lo stato si accollava comunque il grosso dei costi? Forse sarebbe stato meglio, per fare solo un esempio, costruire un sistema di incentivi che favorisse l’attrazione di investimenti e sostenesse i prodotti di taglio internazionale, aiutando così le imprese virtuose più che il prodotto, e parallelamente affrontando con maggior convinzione i nodi strutturali del sistema.
Aver sostenuto il cinema senza una visione industriale del cinema ci costringe oggi a partire in ritardo. Non accumuliamone altro discutendo ancora una volta della presunta crisi del cinema senza discutere di cosa si può fare per il cinema. Lizzani giustamente ricorda la straordinaria capacità del nostro paese e della sua cinematografia di essere cosmopolita, di sapersi inserire in altre culture, di contaminarsi e avere successo ovunque. Quello che occorre capire è cosa serve al cinema italiano di oggi per perpetuare questa tradizione e per misurarsi sul mercato internazionale, perché quello è il suo posto, nel mondo, e solo stando lì potrà finalmente scrollarsi di dosso l’avvilente e ingiusta immagine di una riserva assistita.