Chi si ricorda della “Greenspan put”? Così si definiva la fiducia che il mercato riponeva, dinanzi alle avversità, nell’intervento di Alan Greenspan, deus ex machina che avrebbe abbassato i tassi, inondato di liquidità gli operatori e risolto, in un tripudio generale di “euforia irrazionale”, qualsiasi problema. Si può discutere se le banche centrali debbano considerare, fra i parametri che prendono come riferimento per la fissazione della politica monetaria, anche l’andamento dei prezzi dei beni patrimoniali; peraltro, la risposta a questa domanda non può concedere spazio ad asimmetrie, lasciando nascere e svilupparsi bolle senza intervenire, per poi invece essere costretti a “entrare a gamba tesa” quando queste bolle si sgonfiano.
Alan Greenspan, ex capo della Federal Reserve, non certo infallibile, ha agito con decisione e ha ottenuto risultati notevoli nel post 11 Settembre, ma poi ha forse tirato (o meglio, mollato) troppo la corda, e troppo a lungo. Del resto, leggere oggi che Greenspan non solo non aveva ben compreso il meccanismo dei mutui subprime, ma ora si mette anche a prevedere crolli nei prezzi immobiliari, può essere vagamente inquietante. E non si può fare a meno di sospettare – e ciò può gettare un’ombra sinistra sull’interpretazione di alcune scelte – che sia sempre al lavoro la rete degli “old boys” (ovvero delle persone influenti, legate tra loro da vincoli extra-istituzionali e non sempre selezionate su base meritocratica). Certo è che la provenienza di alcune persone che siedono nel gotha delle istituzioni finanziarie non le pone al di sopra di ogni sospetto.
Sarebbe sufficiente la competenza di uno studente universitario al secondo o terzo anno di economia per illustrare quali sono le conseguenze (quelle che stiamo vedendo), a livello macroeconomico e microeconomico, di un eccesso di liquidità (e di conseguenti tassi di interesse a livelli di disequilibrio) lasciata in circolo troppo a lungo. Un disequilibrio che si manifesta sotto il triplice profilo del debito privato, del debito pubblico e del debito estero, e che fatalmente – lo farebbe anche in un ambiente meno globalizzato – si riverbera sull’intera economia mondiale.
Eviterò di illustrare l’andamento e le conseguenze di ciascuno di tali fattori: sarebbe cosa lunga; così come eviterò di discutere sulla validità degli interventi – che non si limitano alla semplice immissione di liquidità – messi in atto dalle banche centrali per contrastare gli effetti della crisi. Quello che mi preme sottolineare è che quella che stiamo vivendo è una crisi di fiducia, difficilmente circoscrivibile anche a livello teorico proprio a causa del clima di incertezza generato dalla ingegneria finanziaria spinta. Di qui, le inquietudini e gli affanni delle banche centrali e del sistema bancario privato, che anche se inondato di liquidità non riesce, da solo, ad allocarla dov’è necessaria.
Sul Sole 24 Ore del 20 settembre Mario Platero scriveva: “Bernanke… da buon esperto di recessioni ha imparato una cosa: voler mostrare rettitudine morale, costringendo chi si trova in difficoltà e chi è stato magari causa del male a pagare fino in fondo, non è necessariamente nell’interesse della collettività”. Un’affermazione forse discutibile, in cui andrebbe almeno precisato di quale interesse (di breve o di lungo periodo) e di quale collettività si stia parlando. Ma, al di là delle questioni semantiche, rimane in tutta la sua drammaticità il problema dell’azzardo morale; la concessione di una rete di protezione, implicita o esplicita, rischia fatalmente di stimolare comportamenti “devianti” al limite dell’irresponsabilità, e questo è vero in particolar modo in un momento storico nel quale – al di là dei giudizi di valore che si possano formulare su alcune scelte – i controlli sono stati allentati.
E’ il problema dell’automobile lanciata in corsa verso un massiccio muro di mattoni: pur di evitare l’impatto, qualsiasi manovra, per quanto azzardata, è giustificabile e benvenuta. Il problema si pone quando il muro era visibile da una distanza considerevole, e chi poteva non ha inserito alcun limitatore di velocità proprio mentre l’autista, invece di impostare una frenata dolce e progressiva, accelerava sin quasi agli ultimi centimetri.
Chi oggi invoca interventi senza limiti, giustificandoli con la situazione di emergenza in cui ci si trova, dovrebbe riflettere anche sull’opportunità di evitare che i resti dell’esplosione di ciascuna bolla si trasformino nella base per la creazione di una bolla successiva, ancor più poderosa. E che alla fine, andando di bolla in bolla, la fiducia generale nei sistemi basati sul mercato scenda a un livello tale da causare effetti irreversibili. Intanto, come una malattia che ha il proprio decorso da compiere, la crisi continua a svilupparsi. Di certo è stato un colpo all’orgoglio nazionale inglese, più di quanto noi possiamo immaginare, vedere le immagini delle code dei depositanti affrettarsi a ritirare i propri depositi presso la Northern Rock.
In tutto ciò, però, ecco che già si inizia a presagire una possibile bolla dei paesi emergenti: sull’onda della convinzione (valida come erano valide quelle relative ai titoli tecnologici o alle abitazioni) che tali mercati siano immuni dalle conseguenze della crisi attuale e rappresentino un “investimento sicuro”, pare infatti che il prossimo ciclo di turbolenze potrebbe manifestarsi proprio in questo settore.