Sulla prima pagina del Corriere della sera, ieri, Gian Antonio Stella ha citato un articolo del 1919 a firma di un antico e illustre collaboratore del suo giornale, Luigi Einaudi, il quale già allora osservava: “A Roma spadroneggia un piccolo gruppo di padreterni, i quali si sono persuasi, insieme con qualche ministro, di avere la sapienza infusa nel vasto cervello”. Quindi Einaudi proseguiva nella consueta polemica liberista contro l’intervento pubblico nell’economia, contro i monopoli che lo stato non sa amministrare e così via, per concluderne che “bisogna licenziare questi padreterni orgogliosi”. Il parallelo che Stella vuole tracciare tra Einaudi e se stesso è evidente (a noi, che lo sapevamo giornalista di sinistra anche piuttosto radicale, la cosa ha lasciato un po’ perplessi, ma son dettagli) e prosegue notando che quelle citate non sono “parole di Beppe Grillo, né di Guglielmo Giannini”, ma di un padre della patria che nessuno oggi si sognerebbe di accusare di qualunquismo, demagogia antipolitica o populismo (come invece è toccato al povero Stella). A chiarire le cose provvede comunque il titolo, che come ogni editoriale del Corriere della sera da quando “La casta” di Stella e Rizzo è uscito in libreria – salvo rarissime eccezioni – non manca di riprenderne il fortunato logo, e recita per l’appunto: “Einaudi, la casta e l’Italia del ’19”. La conclusione di Stella è netta come le sue opinioni: “Forse, se i politici ‘padreterni’ di allora lo avessero ascoltato senza fare spallucce, tre anni dopo ci saremmo evitati la Marcia su Roma”. Dunque, par di capire, meglio dar retta a Stella. Se poi qualcuno non lo avesse ancora capito, il giorno dopo – cioè oggi – sempre in prima pagina, Pierluigi Battista provvede a ripetere. Titolo: “Luigi Einaudi e i rischi di nuovo fascismo”. E siccome secondo Battista “l’impulso a replicare gli errori è di più di una mancanza di memoria storica: è una coazione a ripetere, una patologia del comportamento che sembra stregare, anche oggi, la politica italiana”, ci pare che la cosa migliore da fare sia darsi subito una rinfrescata.
“Questo giornale che, senza pretendere di guidare nessun partito, pone il suo punto d’onore nell’agitare idee, è lieto che un partito, qualunque ne sia il nome, ritorni alle antiche tradizioni liberali, si riabbeveri alla sorgente immacolata di vita dello Stato moderno, e augura che esso non degeneri e concorra ad attuare seriamente il programma liberale, senza contaminarlo con impuri contatti”. Così scriveva del partito fascista Luigi Einaudi sul Corriere della sera. E non nel 1919, ma ancora il 6 settembre 1922, quando mancava poco più di un mese alla Marcia su Roma. Quando cioè quel partito di cui Einaudi tace pudicamente il nome si era già distinto nelle spedizioni punitive contro le organizzazioni dei lavoratori e contro gli avversari politici, dando alle fiamme camere del lavoro, sedi di partito e giornali di sinistra. Agitando il manganello e il pugnale, assai più che le idee dell’antica tradizione liberale. Va detto che allora furono in molti a commettere lo stesso errore di Einaudi. Mentre non furono in molti, più tardi, a schierarsi apertamente contro il fascismo, come invece Einaudi farà con l’articolo “Il silenzio degli industriali”, sempre sul Corriere. Ma non era il 1919 e nemmeno il 1922, bensì il 6 agosto 1924, in piena crisi dell’Aventino. Dunque non è vero, come dice Gian Antonio Stella e come ripete Pierluigi Battista, che se i partiti allora al governo avessero ascoltato le parole di Einaudi nel 1919, forse “tre anni dopo ci saremmo evitati la Marcia su Roma”. E’ vero, semmai, l’esatto contrario. Peccato che l’implacabile autore de “La casta” sia troppo inorgoglito dalla scoperta di un così augusto predecessore per accorgersene, mentre cita le parole del futuro capo dello stato che nel 1919 “al fianco degli industriali ‘inferociti’, accusava l’esecutivo”, ovviamente dalle colonne del Corriere della sera. Un vero peccato che Stella non si sia fermato un momento a riflettere sul parallelo tra se stesso e Luigi Einaudi, tra l’Italia del 1919 e l’Italia del 2007, tra gli industriali di allora – aggiungiamo noi – e quelli di oggi. Un parallelo molto più interessante di quanto, evidentemente, egli stesso immagina.