L’ultima copertina dell’Espresso è emblematica di questi tempi qua. Il titolo è “Sesto potere” e nel catenaccio ci si chiede se il web sia democratico oppure un nuovo Grande Fratello. L’immagine è un puzzle di faccioni di Grillo, che parla, che gesticola, che fissa pensoso un punto lontano dai monitor di tanti pc.
Giorni fa, poco dopo che il V-Day aveva portato in piazza migliaia di persone, si è aperto – per l’ennesima volta – il dibattito sui blog. Diari personali di narcisi con manie di protagonismo? Cellule di democrazia diretta in grado di creare comunità politiche? Esperimento di giornalismo libero temuto dai giornalisti regolamentari? Ne hanno parlato i giornali (alcuni) e i blogger (molti). Con atteggiamenti nella maggior parte dei casi prevedibili. I giornalisti più furbi a dire che no, ci mancherebbe altro, ben venga un po’ di concorrenza e di aria pulita, ma a patto che il blogger sia in grado di fare bene il mestiere, cioè che controlli le fonti e non le spari grosse così per il gusto della provocazione scambiata per libera circolazione delle idee.
Tra i blogger molti si sono concentrati non tanto sulla sostanza, ma sul modo in cui i giornalisti – quelli furbi e quelli meno furbi – hanno affrontato la questione, e questo può essere già un segnale di come, a volte, funzionano le discussioni da quelle parti. Alcuni hanno scritto che i giornali non sanno leggere i blog, non sanno giudicarli. In particolare Massimo Mantellini (Manteblog) è ricorso a una bella immagine: i blog sono come un rinoceronte, occorre osservarli un po’ da lontano, perché se vuoi giudicare il fenomeno da un singolo particolare – ad esempio il mare di commenti beceri che inondano le discussioni in rete – rischi di non capirci nulla. Anzi, è un metodo pericoloso: nessuno si sognerebbe infatti di accarezzare il corno di un rinoceronte per studiare le sue abitudini alimentari. Il che ci pare un atteggiamento condivisibile, oltre che prudente. Però ce n’è anche un altro di pericolo: che, a stare troppo lontani, l’immagine si rimpicciolisca e magari si perdano proprio quei particolari che permettono – invece – di capire.
Un altro modo di vedere le cose consiste nel dipende. Luca Sofri (Wittgenstein) e Christian Rocca (Camillo) la faccenda la affrontano più o meno così: il contenitore, la modalità di trasmissione, non sono mai (mai) né cattivi né buoni. E’ il contenuto che può essere buono o cattivo, ma questo succede anche con altri mezzi di comunicazione, dalla tv alla radio. Antonio Sofi (Webgol) ha scritto sull’Espresso: “Vale l’esempio del classico coltello che può essere usato per tagliare il pane o per offendere”. Però, anche qui, c’è un pericolo: possibile che il mezzo sia del tutto muto? Che abbiano tutti – giornali, radio e blog – la stessa propensione a fare la materia inerte plasmata dai contenuti? Può essere – invece – che ci sia una differenza tra un mezzo e un altro, e che di quello scarto sia interessante discutere. Perché molto spesso la discussione tra blogger e giornalisti risente di un approccio, diciamo così, valoriale: da una parte si dice che solo un giornale è in grado di fare informazione come si deve, dall’altra che non è vero un bel niente e che anche sui giornali si leggono bufale, articoli scritti sotto dettatura o più semplicemente copiati da Wikipedia. Ma è possibile che l’unica maniera per fare un passo avanti in questo dibattito sia – nei fatti – eluderlo? Che non abbia una qualche ragione anche Vittorio Zambardino (Zeta Vu) a dire che “il furore sta alla comunicazione via Internet come l’ossigeno all’aria”?
C’è poi anche un altro modo di guardare la cosa da parte dei blogger ed è del tipo non puoi capire. Se un giornalista ha un blog – e ce ne sono sempre di più – ma non parla da blogger, limitandosi a linkare i suoi articoli o, qualche volta, a mettere giù alcuni pensierini veloci sulla sua giornata familiar-lavorativa, beh, non sta facendo un blog. Perché il blog ha il suo linguaggio, la sua grammatica, ma soprattutto perché il blog è comunicazione a due direzioni, è comunità, è condivisione, è commento, insomma è starsene immerso capo e collo nella corrente che va impetuosa. Cioè, il rinoceronte non puoi studiarlo né da vicino né da lontano, ma occorre contestualizzarsi con la savana e farsi in prima persona rinoceronte. Solo che, parafrasando Wittgenstein – il filosofo, non il blog – anche se un rinoceronte (lui diceva un leone) potesse parlare, noi non saremmo in grado di capirlo. C’è tutto un mondo linguistico che sfugge a chi sta fuori. Autoreferenzialità? Non proprio, sebbene a volte si abbia la sensazione che il rinoceronte sia un uomo vestito da animale che fa finta di non capire. E questo perché gli piace un sacco fare il naturale e il genuino e il libero, non rendendosi conto di stare – molto spesso – allo zoo.