Ci piace definirla: la sindrome Verdone. Ne è afflitto Walter Veltroni. Consiste più o meno in questo, e scuserete la digressione cinematografica. Carlo Verdone è un bravo attore e un discreto regista. Ha costruito il suo successo negli anni Ottanta con una serie di deliziose e brillanti commedie nelle quali lui, caratterizzazioni a parte, ha rivestito di fatto sempre il medesimo ruolo: un pacioccone ingenuotto mezzo romantico mezzo bamboccione, si direbbe oggi, che può travestirsi da playboy (“Borotalco”), da prete impostore (“Acqua e sapone”), da teppista motociclista (“Troppo forte”), ma alla fine dei giochi è sempre lo stesso personaggio, tenero come un agnello e buono come un pezzo di pane. Proprio in “Troppo forte” c’è una sequenza rivelatrice. Verdone, che è il capo di una gang di rude boys, si presenta con tutta la banda a un provino a Cinecittà, dove si cercano comparse “cattive” per un film di fantascienza americano. Li prendono tutti. Tranne Verdone, perché il responsabile del casting, davanti alla sua foto con fascia alla Rambo e ghigno da villain, sentenzia: “Questo no, c’ha la faccia da buono”. A un certo punto della sua carriera, però, Verdone s’era stufato di fare sempre la stessa parte. Voleva cambiare. Fare un film più serio e calarsi in un ruolo più sfaccettato, magari anche “negativo”. C’ha provato con “Al lupo, al lupo”, dove interpretava un cinico e attempato dj. Ci ha riprovato in “Perdiamoci di vista”, dove si era cucito i panni di un bieco presentatore della tv del dolore. Ma attenzione, questo per la prima mezz’ora di film. Trascorsa la quale – un po’ per non disorientare troppo il pubblico, un po’ per mancanza di coraggio, magari anche per difetto di ispirazione – il Verdone cattivo ritornava il Verdone di sempre: naso a patata, tenere risate, buoni sentimenti. Il cinico dj si trasformava in premuroso fratello (di Francesca Neri). Il bieco presentatore tv in sensibile accompagnatore di disabili (Asia Argento). E addio film “serio”, addio cambio di registro attoriale.
Il Walter Veltroni politico – insomma, il personaggio Veltroni – vive la stessa difficoltà. E questi mesi di campagna per le primarie del Pd in vista del voto di domenica prossima ne sono stati la prova. Prendete il primo discorso del Lingotto: non c’è dubbio che il 27 giugno scorso Veltroni abbia dato una prova tutt’altro che scontata. Il discorso era insolitamente asciutto e scevro di retorica citazionista. I contenuti erano spesso sviscerati e declinati in forma di proposta concreta, non semplicemente enumerati tipo lista della spesa, come sono soliti fare quasi tutti i leader di sinistra (“E ci sono le donne, e ci sono i giovani, e l’Europa, e l’ambiente…”). I toni erano rassicuranti dove dovevano, ma inflessibili quando necessario. In molti abbiamo pensato: vuoi vedere che Veltroni stavolta gira il film della svolta? Ci stavamo quasi credendo quando, a distanza ravvicinata dal Lingotto, arriva la dichiarazione sul referendum elettorale: “Lo sostengo, ma non lo firmo”, dice Walter. Rieccolo lì, il Veltroni dal naso a patata, che non tollera di deludere il suo pubblico, di stare troppo a lungo nella parte del duro e deciso. Sebbene motivata da ragioni concrete – la paura di destabilizzare il governo Prodi – quella dichiarazione paradossale pareva fatta apposta per ripiombare il sindaco nella sua dimensione ecumenica e conciliare. La sindrome Verdone, appunto.
Poi però il sindaco era tornato di nuovo alla carica: fisco, sicurezza, alleanze. Magari alcune dichiarazioni potevano sembrare una facile esibizione muscolare (tipo quelle sui rom), ma era innegabile che Veltroni stesse seguendo un copione originale e poco buonista. Sentirlo parlare di coalizioni coese e ristrette, lui che ha governato Roma mettendo insieme l’Opus dei e l’Autonomia operaia, faceva il suo effetto. Ma ancora una volta, passata mezz’ora di proiezione, il film d’autore torna commedia per famiglie. Sulle alleanze, per esempio. Non solo Veltroni continua a rifiutare di schierarsi per uno dei possibili modelli – e certo la prevalenza dell’uno o dell’altro non è indifferente rispetto all’obiettivo dichiarato – limitandosi a un elenco di criteri da soddisfare, ma continua a insistere sul referendum. Il cui probabile esito è una legge elettorale che costringerà a forza i rispettivi poli a costiparsi in due listoni creati alla bisogna. Insomma, un bipolarismo coatto quanto quello attuale. Solo un po’ più ipocrita. E il Veltroni decisionista? Dove va a finire dopo il referendum quel campionario di slogan novisti tipo “democrazia governante” o “partito a vocazione a maggioritaria” se poi il Pd non può nemmeno presentarsi sulla scheda e deve trattare a tavolino le liste non solo con Mastella e Pecoraro, ma pure con i Pensionati, i Consumatori e le Leghe del nord, del centro e del sud? Dicono i bene informati: Veltroni sa che Prodi cadrà entro l’anno prossimo e si spenderà per la nascita di un governo istituzionale che, con un asse tra i grandi partiti (Pd, Forza Italia, An), riformi la legge uscita dal referendum. Ma questa sarebbe una scommessa, più che un piano. Una volta celebrato il referendum, le probabilità di tenersi la legge che ne sortirà sono altissime e le conseguenze per Veltroni disastrose: perché Berlusconi non avrà problemi a coalizzare tutto il centrodestra sotto la sua bandiera, mentre Veltroni – specie dopo l’eventuale caduta di Prodi – dovrà scendere in campo senza un pezzo di Unione. Qui la manifestazione della sindrome Verdone – “Voglio la nuova legge elettorale, ma non vi dico quale” – è soprattutto autolesionista. In altri casi, invece, pare piuttosto la manifestazione dell’attore che, quando percepisce che il pubblico potrebbe annoiarsi o disamorarsi, gli regala il cavallo di battaglia. “Capisco le ragioni dell’indulto, ma ho visto le conseguenze nella mia città e non sono state positive”, ha detto Veltroni pochi giorni fa. Una dichiarazione che pare fatta apposta per dare ragione agli sberleffi parisiani sulla predilezione di Walter per il “ma anche” (“Sono a favore di questo, ma anche di quello…”) e, in tono minore, rinverdisce i fasti di una celebre dichiarazione di Casini: “Se non fossi cattolico, sarei per la pena di morte”. Anche Veltroni, se non fosse Veltroni, sarebbe per l’indulto (e per la sicurezza, ché non c’è contraddizione). Ma il pubblico? Che direbbe? Per il segretario del Pd il timore di perdere un colpo al botteghino è (per ora) più forte della tentazione di puntare al film della vita. Ma il rischio è di finire proprio come Verdone, a inseguire con successo decrescente il triste remake degli esordi.