In attesa dei dati completi e definitivi, è possibile fin d’ora azzardare alcune considerazioni sul voto del 14 ottobre, che ha fatto giustizia di non pochi luoghi comuni sul carattere di queste primarie e sulla natura del Partito democratico. Innanzitutto, appare rilevante il ruolo svolto dai candidati dei collegi nel favorire una partecipazione così ampia. Non a caso, la percentuale dei votanti in rapporto a quella degli elettori dell’Ulivo è stata maggiore nel Mezzogiorno e in tutte le zone in cui il voto di preferenza ha tradizionalmente un peso maggiore, fino a giungere al record della Calabria, dove questo rapporto ha raggiunto l’incredibile cifra del 70 per cento (contro il 26 per cento della media nazionale). L’altro elemento degno di rilievo è la consueta compattezza delle regioni rosse, dove pur in presenza di una riduzione dei votanti rispetto alle primarie del 2005 (a fronte del considerevole aumento registrato al Sud) si è avuta una partecipazione quantitativamente imponente, che ha offerto un’ennesima riprova della solidità (ma anche del carattere monolitico) della subcultura e dell’insediamento organizzativo dei Ds in quelle zone. In questo quadro, l’impatto del “voto d’opinione” ha avuto un ruolo oggettivamente minore, che si è manifestato soprattutto nei quartieri centrali e semicentrali delle grandi città, dove il successo di Walter Veltroni è stato comunque netto ma, soprattutto a Roma e Milano, meno schiacciante che nel resto del paese per via del buon risultato di Rosy Bindi ed Enrico Letta.
Il relativo ridimensionamento del peso del voto d’opinione, determinato dalle dimensioni assunte dal voto “trainato” dai candidati o veicolato dalla solidità degli apparati di partito, è d’altronde sottolineato dal risultato modesto della cosiddetta “lista Melandri” e più in generale di gran parte dei candidati provenienti dal mondo dello spettacolo e dalla società civile (quando non inseriti in liste robuste sul piano della rappresentatività politico-territoriale). A ulteriore riprova di questo dato, le corrispettive liste regionali hanno generalmente avuto un risultato migliore di quelle nazionali in cui erano presenti i candidati “vip”, mentre i segretari regionali sono stati eletti con una percentuale di consensi mediamente superiore a quelle del segretario nazionale.
L’obbligo del collegamento delle liste di collegio a un candidato segretario ha reso la composizione delle liste molto più ristretta e verticistica di quanto il regolamento (concepito quando non si pensava all’elezione diretta del leader) avesse previsto. Complessivamente, si può comunque dire che le liste presentate siano state abbastanza rappresentative, come dimostra in particolare l’ottimo risultato della lista “Democratici con Veltroni” (50 per cento dei voti su scala nazionale). Non a caso, quando le scelte dei candidati sono state meno felici quella lista ha preso meno voti, mentre quando essa ha saputo unire il meglio delle classi dirigenti locali e nazionali dell’Ulivo la percentuale raggiunta è stata considerevole. La scelta del cosiddetto “quoziente Imperiali” per la ripartizione dei seggi (quoziente naturale più due, che abbassando il quoziente aumenta il numero dei seggi assegnati direttamente e riduce quelli attribuiti con i resti, elevando di fatto la soglia di sbarramento dal 5 per cento su scala circoscrizionale alla percentuale del quoziente di collegio, nella maggioranza dei casi superiore al 10 per cento) ha ulteriormente rafforzato il risultato del “listone” (57 per cento di delegati). Il mediocre risultato della “lista Melandri” (7,67 per cento di voti e 5,94 per cento di seggi) ha in ogni caso in parte ridimensionato questo effetto “maggioritario” del sistema elettorale, cosicché mentre la lista “Democratici con Veltroni” ha ottenuto il 7 per cento in più di seggi rispetto ai voti, se si tiene conto dell’insieme delle liste collegate a Veltroni questo “premio” si riduce a circa il 4 per cento.
Come era prevedibile, il meccanismo dei collegi territoriali ha garantito una rappresentanza della classe dirigente effettiva dei Ds e della Margherita più fedele di quella che scaturiva dai tradizionali meccanismi congressuali (in cui normalmente la città prevaleva sulla campagna e i vertici nazionali su quelli periferici), determinando allo stesso tempo una forte prevalenza della dimensione del governo locale nelle gerarchie del nascituro partito. In questo quadro, il carattere tutt’altro che autoreferenziale e scarsamente rappresentativo del ceto politico dei due partiti è risultato confermato dall’alto numero di votanti e dall’eccellente risultato del “listone”. Complessivamente, si può dire che la formula dell’Ulivo-partito, cioè l’unione di Ds e Margherita in un quadro di apertura alla società civile, ha fatto da moltiplicatore del tradizionale radicamento sociale dei due partiti, consegnando al nuovo partito il problema di come garantire stabilmente un ruolo non subalterno alla società civile e di come definire procedure di selezione dei gruppi dirigenti più democratiche e aperte.