“Ho sempre pensato a Silente come a un gay”. Con queste parole, pronunciate durante un incontro con i fan alla Carnegie Hall di New York, J.K. Rowling – autrice della saga di Harry Potter – ha innescato un dibattito che durerà a lungo. Deve essersene accorta pure lei se, pochi minuti dopo aver fatto outing a proposito dell’orientamento sessuale dell’anziano e saggio preside della Scuola di Magia e Stregoneria di Hogwarts, ha commentato divertita: “Avevate bisogno di qualcosa su cui discutere per i prossimi dieci anni”.
In effetti, di cose interessanti da dire ce ne sarebbero parecchie. La prima riguarda il “che cosa è” di un’opera letteraria, la sua essenza. La saga potteriana è l’insieme di parole che compongono i sette libri o deve includere anche ciò che l’autrice ha immaginato e pensato, ma non ha scritto? È evidente che ogni fairy tale voluminoso e pieno di rimandi interni come quello di Harry Potter implica un’enorme mole di studi, abbozzi, sottotrame che poi non trovano necessariamente spazio nel testo che viene pubblicato. Come insegna un altro grande autore di saghe fantasy, J.R.R. Tolkien, quanto più è vasta la mole di materiale “non scritto”, tanto più la trama pubblicata acquista profondità, plausibilità, capacità di persuasione e di fascinazione presso i lettori. Tolkien, è noto, aveva concepito persino le grammatiche delle lingue parlate dai popoli della sua Terra di Mezzo, ed è proprio questo che rende tanto vive, suggestive e “realistiche” le espressioni, i brani di poema e le canzoni in elfico o in nanico che compaiono lungo le mille pagine de “Il Signore degli Anelli”.
Tuttavia, questa profondità pone un problema esegetico di difficile soluzione: quanto un “dato” immaginato dall’autore di un’opera – ma non esplicitamente narrato – vincola il lettore nella sua interpretazione dell’opera stessa? E se il dato, come nel caso in questione, viene rivelato a posteriori, a opera già diffusa e variamente interpretata? Si tratta di un tema classico dell’ermeneutica: scopo di ogni lettura di un’opera è la ricostruzione dell’intenzione espressiva dell’autore o piuttosto è una sorta di riformulazione dell’opera a partire dalla “lettera del testo”, che quindi schiude sempre nuove prospettive? Certo, si potrebbe obiettare che nel caso della Rowling ciò che è stato reso noto nell’intervista non è l’interpretazione complessiva del testo attribuibile alla sua autrice, quanto piuttosto un aspetto del tutto secondario. Ma poi la questione si complicherebbe: esistono “dati” letterari che siano puri, separati dall’interpretazione complessiva dell’opera cui appartengono? Fino a che punto un autore ha il potere di plasmare quel mondo, anche a posteriori e al di fuori di ciò che il testo della sua opera esplicitamente dice? E che cosa accadrebbe se un lettore, per qualsiasi motivo, volesse arrogarsi il diritto di ignorare il dato posticcio? E l’atteggiamento di chi, invece, si proponesse di rileggere l’opera per trovare qualche traccia esplicita di quel dato sarebbe rubricabile come paranoia letteraria o piuttosto sarebbe catalogabile come cura filologica del testo medesimo, capace magari di poter fondare – attraverso la ricostruzione archeologica di una diversa “lettera del testo”, diversa in quanto interpretata alla luce del nuovo dato – una nuova ermeneutica complessiva dell’opera?
L’episodio relativo alle preferenze sessuali di Albus Silente rende evidente il fatto che la “società letteraria”, o meglio il modo in cui la letteratura “accade” e in cui della letteratura si fruisce nella società contemporanea, è una realtà in mutazione, e in ogni caso molto diversa da ciò che per letteratura si è inteso per secoli. Manzoni, Flaubert, Musil e Dostoevskij (per non dire Shakespeare o Dante) non tenevano tour per promuovere le loro opere presso i fan di tutto il mondo, non partecipavano a chat nelle quali rispondevano in tempo reale ai quesiti dei lettori, non generavano il fenomeno delle fan fiction, non avevano il problema di dover sovraintendere alla realizzazione della versione cinematografica delle loro opere. Che tutto ciò non sia un mero accidente della produzione dell’opera letteraria, ma entri di prepotenza a formare il fenomeno che oggi chiamiamo letteratura, è di un’evidenza lampante.
Tutto questo, mi pare, è davvero molto interessante e bisogna dare merito a J.K. Rowling – al netto di ogni altra considerazione – di aver avuto la voglia e il coraggio di sollevare questo polverone metaletterario. Ciò detto, tuttavia, sono molto preoccupato. Ho la sensazione che, se a proposito dell’outing su Silente un dibattito ci sarà, non verterà su nessuna delle questioni sopra indicate. Temo proprio che, soprattutto qui in Italia, la discussione prenderà altre e molto meno interessanti direzioni. Dal vecchio (già vecchio quando comparve) “Harry Potter è buono o cattivo?” della signora Kuby, scrittrice cattolica antipotteriana che ricevette – forse – pesino la benedizione dell’allora Prefetto del Sant’Uffizio Joseph Ratzinger, all’iniziativa di qualche anima bella che proverà a risollevare la questione dell’opportunità o meno che un omosessuale eserciti il ruolo dell’insegnante. Mi vedo già il povero Albus Silente tirato per la tunica e variopintamente rappresentato in effigie al prossimo Gay Pride. So che entrerà in campo qualche monsignore e qualche libero pensatore gli risponderà sulla prima pagina di qualche quotidiano. Forse – ma è una magra consolazione – stavolta ci risparmieremo Piergiorgio Odifreddi, ma solo perché a lui stanno parimenti sul gozzo i monsignori e Harry Potter (cui il Nostro ha addossato recentemente la colpa della mala educatión matematico-scientifica dei bimbi italiani) e pertanto non saprebbe da che parte schierarsi.