“Ho accettato questo incarico come una sfida, armato di intenzioni del tutto malevole. Spero tanto di riuscire a dipingere qualcosa che guasti l’appetito d’ogni figlio di puttana che entrerà in quella sala per mangiare”. I malcapitati clienti a cui si augurano disturbi gastrointestinali sono “i più ricchi bastardi di New York”, la sala in questione è quella di un lussuoso ristorante all’interno del Seagram Building, e l’artista incaricato, uno dei più grandi del Novecento, è Mark Rothko, la cui opera è in questi giorni celebrata a Roma con una splendida mostra al Palazzo delle Esposizioni.
Il minimo che si possa dire, leggendo le parole di Rothko, è che esse non delineano la più consueta delle relazioni che normalmente capita di instaurare con un quadro. Per lo più, l’artista non si propone di mandare di traverso qualche pietanza, né l’apprezzamento estetico viene espresso in termini di voltastomaco. Proprio per chiarire bene quanto specifico fosse il giudizio estetico, Kant aveva messo ogni cura nel distinguere il bello dal piacevole (e dallo spiacevole), ma anche dall’utile, dal buono o dal vero. La sua operazione critica è la più rigorosa rivendicazione dell’autonomia della sfera puramente estetica da ogni altro genere di istanza: religiosa, morale, politica, psicologica, gastronomica o di qualunque altro genere. Il fatto che Rothko dipingesse certe sue grandi tele per far vomitare clienti dal palato sopraffino (e dalle tasche capienti) è la dimostrazione che la recinzione kantiana del dominio della sfera estetica non è durata a lungo. Eppure il senso comune, a cui di solito non piace mandar giù bocconi indigesti e preferisce avere indorata la pillola, è ancora convinto che quel che si deve dire anzitutto e magari esclusivamente di un’opera è se sia bella oppure no (e la convinzione resiste, specialmente in Italia, forse anche per responsabilità dell’idealismo crociano). Poco importa che tutta l’arte contemporanea la pensi diversamente, e che Rothko si proponesse scopi che con la liturgia dell’art pour l’art hanno ben poco a che fare: preferiamo ancora pensare che gli artisti si propongano anzitutto di realizzare oggetti belli, e che questi vadano fruiti dalla giusta distanza, in atteggiamento di rispettosa contemplazione.
Poi uno va alla mostra romana, e trova che il suo unico difetto (se ne ha uno) è quello di stare ancora troppo dentro i limiti di un’esperienza estetica. E per esempio di mettere a disposizione del visitatore grandi spazi per una fruizione distaccata dei dipinti dell’artista, quando invece di un simile distacco Rothko non voleva saperne. Preoccupato della vita che le sue opere dovevano condurre fuori del suo atelier, Rothko era prodigo di consigli circa le modalità espositive. A Katharine Kuh, nel settembre 1954, chiede ad esempio che i dipinti siano “affrontati a distanza ravvicinata” e che siano installati in basso, a pochi centimetri dal pavimento. Si spinge persino a suggerire “di provare ad appendere qualcosa che vada oltre il bordo della parete laterale, perché alcuni dipinti rendono bene in uno spazio ristretto”. Ora, nonostante l’allestimento rispetti per quanto possibile queste indicazioni, di fatto, a causa dell’ampiezza delle sale del Palazzo delle Esposizioni, l’obiettivo che Rothko si prefiggeva, specie con le grandi tele (“saturare la sala con il sentimento dell’opera”, in modo che “le pareti vengono annullate e l’intensità di ogni singola opera diviene più visibile”) non viene raggiunto e non può esserlo. Né il curatore può permettersi di eliminare i pannelli che accompagnano ogni percorso espositivo. Eppure Rothko non amava affatto divenire materiale per l’esercitazione critico-letteraria degli esperti. Quel che voleva era che lo spettatore si lasciasse interamente dominare dal quadro, che casomai ci finisse dentro, senza avere la libertà di prendergli le misure con l’aiuto didascalico dei cartellini.
Ma il senso comune protesta: non può credere che invece di parlare delle tele di Rothko, si finisca col parlare delle pareti a cui le tele vengono appese. Eppure le cose stanno proprio così, e non si è molto avanti nella comprensione delle esperienze artistiche novecentesche se si continua a pensare allo spettatore, all’artista, al quadro e al museo, nei termini che potevano andar bene nell’Ottocento. Alla pigrizia del nostro abituale modo di percepire costa fatica ammettere che i quattro che abbiamo nominato (ma c’è anche un quinto, non meno importante: il committente) cambino di posto e di importanza, e soprattutto che muti la relazione che intrattengono fra di loro. La qual cosa è un fatto, prima ancora che un giudizio.
Ora, cosa possiamo farcene di questo fatto? E cosa possiamo farcene della rabbia di Rothko, della sua malevolenza (ma anche, in altri lavori, delle sue sacche di silenzio o della sua violenza primordiale)? Beh, per esempio possiamo immergerci nei quotidiani, e leggere in questi giorni che in letteratura non bisogna impicciarsi di politica ma pensare piuttosto a scrivere bei libri, e augurarci che ci sia da qualche parte qualche scrittore che con intenzioni del tutto malevole riesca a scrivere qualcosa che guasti l’appetito di qualche figlio di puttana.