La manifestazione rossa del 20 ottobre è stata bella anche perché non è stata una manifestazione contro Prodi, ma neanche banalmente contro Berlusconi (un bel passo in avanti nella pedagogia politica della piazza di sinistra). Non erano neanche “un milione di no” al protocollo sul welfare, come ammiccava il titolo del Corriere della sera, coloro che hanno sfilato sabato scorso. Quella piazza non era espressione della minoranza sindacale, ma appariva caratterizzata per lo più da una nuova classe lavoratrice, giovane, femminile e di immigrazione. Un ceto che ha fatto irruzione in scena per imporre una certa declinazione della “questione sociale”. Questo era lo spirito del corteo e Rifondazione comunista, che ha avuto la regia della giornata, ha dimostrato così di poter essere architetto di una “Cosa rossa” che sta seduta al tavolo del governo.
Per il governo, quindi, quella che alcuni dipingevano come un’imboscata, si è rivelata invece l’occasione di un secondo, importante segnale di vicinanza politica da parte di un mondo del lavoro che ancora lo sostiene (la “diga”, il “programma”). Prima i quattro milioni di sì allo scambio tra ammortizzatori sociali, welfare e pensioni, con una straordinaria mobilitazione del lavoro dipendente; quindi l’emersione di un dissenso, minore ma corposo, che ha saputo dare voce in modo composto ad una “questione sociale” in parte inedita.
Sono milioni i lavoratori che non arrivano a mille euro al mese. Non si tratta solo di ragazzi al primo impiego: nei servizi, nel settore pubblico, in agricoltura, in edilizia, nei subappalti, nel lavoro autonomo di minore entità e in quello “a progetto”; un mondo di cui gli immigrati sono solo la componente più visibile.
Ma anche la cifra di mille euro, intorno a cui si raggruppa la maggioranza dei redditi, seppure in astratto sufficiente a mantenere una famiglia, costituisce invece la soglia del disagio se è l’unico reddito, se il lavoro è instabile, se c’è da pagare – anche – un affitto o un mutuo.
Il disagio sociale investe quindi strati diversi della popolazione e lambisce un gran numero di famiglie. E in Italia è la famiglia allargata, ancora oggi, la principale unità economica del paese, il luogo in cui si ricompongono le frantumate identità sociali di un vasto e composito ceto medio. Nella stessa famiglia, a volte nelle diverse attività della medesima persona, convivono lavoro autonomo e dipendente, stabile e precario, redditi tartassati dal fisco con rilevanti entrate in nero; ci sono le pensioni dei genitori e la casa di famiglia in proprietà, e magari i figli in affitto fuori sede. E’ nelle famiglie che vanno in compensazione gli squilibri nei rapporti di dare e avere dei singoli verso le imprese e verso lo Stato. E quando non riescono più a metterli in equilibrio nel bilancio familiare, dando così ai suoi componenti – con il mix di patrimonio, redditi e rendite – un’aspettativa di stabilità e miglioramento, è allora che esplode la questione sociale.
E’ quello che è successo durante il governo Berlusconi, e che ha fatto vincere a Prodi le elezioni del 2006. Per questo il governo oggi non può ignorare quella piazza, o semplicemente esortarla ad accettare passivamente il ruolo di minoranza. Non solo perché lì si esprimono i bisogni di una quota significativa dei suoi elettori, ma perché quei bisogni sono intrecciati a una più vasta questione sociale che coinvolge strati ben più ampi di popolazione. E’ un bene che il referendum sindacale sia stato vinto, ma i sì incorporano anch’essi una domanda di riforme e sono l’altro volto di un disagio che il sacrosanto protocollo sul welfare non basta a risolvere. Separare i “riformisti” dai “radicali”, come invoca il circolo Draghi-Monti-Montezemolo, è un esercizio di retorica politologica, ma non è possibile sociologicamente né ha senso per chi sia interessato al benessere dei lavoratori.
Il centrosinistra potrà ritrovare i consensi che oggi gli mancano solo se saprà risolvere in modo virtuoso la complessa equazione del vincolo di bilancio delle famiglie, dando risposta alla questione sociale nel suo insieme. Equazione difficile, perché assai stretti sono anche i vincoli attanagliano l’economia italiana: il debito pubblico, la valuta forte, l’incertezza internazionale, l’arretratezza tecnologica e un sistema dei prezzi caratterizzato da rendite e speculazioni.
Infatti, ciò che nel nostro paese è andato davvero fuori controllo, più che altrove, è proprio il sistema dei prezzi e la struttura dei consumi a cui siamo obbligati. Il mercato finanziario globale non è il bengodi del cittadino consumatore. E’ nel mercato finanziario che si producono, in primo luogo, eventi che incidono sul tenore di vita più di dieci manovre finanziarie: la bolla immobiliare, le oscillazioni dei tassi di cambio e dei tassi d’interesse, la volatilità dei valori mobiliari, il trasferimento delle perdite finanziarie delle grandi banche sui consumatori finali.
C’è poi il costo dell’energia e quello di altre materie prime i cui aumenti vertiginosi sfuggono alla regolazione nazionale e possono essere neutralizzati, in parte, solo con decise politiche industriali. Infine c’è lo stato rovinoso in cui versa gran parte della rete dei servizi pubblici – prodotto della trentennale egemonia dello slogan “meno stato, più mercato” – che ha finito per trasferire ulteriori costi sui cittadini, costretti a pagar caro per soddisfare esigenze quotidiane (dai trasporti alla salute, dalla casa alla cura dei figli) cui in altri paesi provvede, assai bene, lo Stato.
L’agenda della crescita e quella della questione sociale sono dunque collegate. Il governo deve reperire ogni risorsa possibile e impiegarla in modo selettivo, con la fermezza di un chirurgo, per incrementare la produttività delle imprese, far crescere il peso dei redditi da lavoro e ridare al paese un’armatura adeguata di infrastrutture, abitazioni e servizi. E farlo nel contesto di un’Europa che deve a sua volta imparare a investire su un euro strutturalmente forte, facendo crescere la domanda interna e sviluppando la proiezione internazionale di un sistema continentale di grandi imprese strategiche.
Per realizzare questo programma servono quindi stabilità, tempo lungo, forza politica. E non sembra impossibile superare le attuali fibrillazioni coinvolgendo l’Udc in un governo seriamente ispirato a questa prospettiva. Soprattutto se a questa prospettiva si dà spessore incardinandola in un meccanismo elettorale – come quello tedesco – che consenta ai partiti di tornare a essere una cosa seria, e renda la nostra democrazia compatibile con gli standard europei.
Questo tragitto non può però prendere le mosse dalla frattura, bensì dall’allargamento della base sociale del governo. Non serve imbarcarsi in un’avventura di “nuovo conio” alla fine della quale ci sono elezioni politiche ravvicinate e una sconfitta certa. Se la maggioranza si rompe a sinistra, la “Cosa rossa” non sarà mai una forza di governo. Diventerà invece il luogo dell’opposizione, ricettacolo di ogni iperbole propagandistica, mentre il Partito democratico rischierà di venire dissanguato da sinistra e quindi sopraffatto dall’estenuante chiacchiericcio dei “volenterosi”.
C’è chi pensa che si possa restare nello schema dell’attuale legge elettorale (casomai enfatizzato dal referendum) e mandare il Pd a elezioni ravvicinate da solo, facendo leva sul “voto utile”. Una campagna elettorale caratterizzata dal paradosso di un “incumbent” che anziché rivendicare l’azione di governo la rimuove, e cerca la “rimonta”. E’ lo stesso film del 2001. Non era un granché e non c’è motivo di tornare a vederlo.