Ad Arturo Parisi bisogna riconoscere un merito. Ci crede. Anzi, di più: se c’è oggi, nel traballante scenario di fine Seconda Repubblica, un politico ancora guidato dall’Idea, questi è il ministro della Difesa. L’Idea di Parisi è l’Ulivo. Che non necessariamente coincide col Partito democratico. Per molti, infatti, il Pd è (bene o male) il coerente approdo finale di dieci anni di ulivismo politico ed elettorale. Per il sociologo sassarese no, esso è solo una imperfettissima manifestazione terrena dell’Idea. Non staremo qui a spiegare le tante e note ragioni che spingono il professor Parisi a dolersi per le fattezze della creatura di cui potrebbe comodamente rivendicare la paternità e che è invece pronto a disconoscere: nel Pd di Franco Marini e Massimo D’Alema (ma, in parte, anche di Walter Veltroni) Parisi vede negato il suo antipartitismo spinto al limite dell’antipolitica, il credo nuovista, gentista e referendario, la religione bipolarista e la sua furiosa avversione per qualsivoglia forma di centrismo, che fa di lui il cattolico più antidemocristiano della storia repubblicana – ben più dei catto-comunisti del Pci o dei cattolici del dissenso a suo tempo intruppati nell’ultrasinistra – e che lo colloca lontanissimo dall’album di famiglia della sinistra democristiana di cui sono invece figurine ufficiali Romano Prodi e la gran parte dei dirigenti della Margherita. Proprio la divergenza con Prodi, che tante volte è stata oggetto di retroscena giornalistici per marcare le distonie tra i due prof trapiantati a Bologna (ormai è chiaro da tempo anche ai più ottusi che “prodiano” e “parisiano” non sono aggettivi sinonimi), ha scavato la sua distanza massima in questi giorni di sofferenza estrema dell’esecutivo e di vigilia dell’assemblea costituente del Pd. Parisi scalpita, ripudia, si agita. Proprio mentre il premier, appeso a un filo, avrebbe bisogno della quiete più assoluta per non precipitare a terra.
Ma tra i due padri nobili dell’Ulivo non è solo questione di ruoli diversi. Gli ulivismi non sono infatti tutti uguali. Men che meno quello di Parisi e quello di Prodi. Per spiegare le differenze tra la tendenza Arturo e la tendenza Romano si potrebbe partire da due lettere finite insieme sulle prime pagine dei quotidiani pochi giorni fa. La prima l’ha firmata lo stesso Parisi sul Corriere della sera, per difendersi dalle critiche di Francesco Rutelli sul referendum e per offrirsi come scudo umano a Veltroni, se il neosegretario democratico deciderà di combattere a viso aperto i sostenitori del modello elettorale tedesco. L’altra missiva è quella al popolo iracheno inviata da Osama bin Laden, in cui il leader di al Qa’ida fa autocritica per le divisioni e le lotte intestine alla galassia dell’islamismo radicale, e rilancia l’obiettivo del grande califfato islamico. Davvero non c’è intento satirico nell’accostamento. È che non c’è terreno migliore per spiegare la distanza tra l’ulivismo di Prodi e quello di Parisi che il parallelo con le divisioni nel campo del fondamentalismo islamico.
Dicevamo di bin Laden. Ciò che distingue il jihadismo qaidista da altre forme di integralismo, politico e religioso, è il suo intransigente universalismo e la sua carica teleologica. Ai qaidisti non basta l’instaurazione di un singolo regime islamico per dichiarare conclusa la guerra agli infedeli. Anzi, la loro repulsione è più forte proprio verso quegli Stati formalmente islamici, ma in realtà considerati compromessi con miscredenti, empi e secolaristi. Emblematico è il loro odio verso l’Arabia saudita, dove la religione di Stato – se così si può dire – è il wahhabismo, vale a dire l’insieme di dottrine e precetti mutuati dal religioso Muahammad Ibn ‘Abd al Wahhab, vissuto nel Settecento. I wahhabiti sono detentori di una tradizione islamica rigorista. In teoria, nulla li distingue da un talebano afgano o da un qaidista: predicano la rigorosa applicazione della shari’a, hanno più volte organizzato milizie islamiche per il controllo del territorio, conducono forsennate battaglie contro i miscredenti. Ciò non toglie, però, che l’Arabia saudita non somigli granché all’Afghanistan dei talebani. E questo perché tra gli ulema wahhabiti e la dinastia regnante dei Sa’ud esiste da secoli un patto tacito. I wahhabiti concedono legittimità religiosa alla dinastia. Questa riconosce loro il monopolio del clero e ne foraggia scuole e istituzioni. E quando i Sa’ud devono fare i conti con le terrene esigenze della geopolitica e del mercato, gli ulema ne coprono le mosse più spregiudicate a colpi di fatwa. Fu così, per esempio, che i Sa’ud poterono dirsi in linea con l’Islam quando concessero l’uso di basi militari agli Stati Uniti in occasione della prima guerra del Golfo. Quello saudita è insomma un islamismo radicale temperato, se ci si passa l’ossimoro, ed eterodiretto dall’alto. Non a caso, quando negli anni Settanta cominciarono ad affluire in Arabia fondamentalisti scampati alla repressione nei loro paesi (Egitto in testa), non solo furono spesso osteggiati dai wahhabiti, che sentivano minacciata la loro posizione dalla maggiore preparazione intellettuale e dalla cristallina coerenza dei concorrenti, ma finirono spesso sul patibolo per decisione dei regnanti. E lo stesso Osama fu privato della cittadinanza nel 1994 per avere fiancheggiato e organizzato le voci più ostili alla dinastia.
Ecco, tutto questo per dire che l’ulivismo di Prodi-Sa’ud è indiscutibilmente di stampo wahhabita: intransigente sulla carta, flessibile nei fatti. Prodi non ha mai deflesso dalla sua immagine di testardo federatore ma, a studiare bene le sue mosse, il suo ulivismo è sempre stato piegato alle esigenze del momento, attento a creare le migliori condizioni per l’esercizio del potere. Quando nell’estate del 2003 l’attuale premier propone di varare alle europee dell’anno successivo una lista unitaria di tutto il centrosinistra – proposta che da molti è considerata l’innesco della fase operativa del Pd – in realtà egli non ha assolutamente in testa l’approdo di un pezzo di centrosinistra in un partito unico. Gli interessa invece riaffermare la sua primazia sulla coalizione di centrosinistra e normalizzare la sua condizione di senza partito, ponendosi a capo di una massa indistinta di sigle (la sua proposta è rivolta a un arco di forze che va da Mastella a Bertinotti). Sono altri leader, subito dopo, a emendare quella proposta e a girarla verso la fondazione di un partito vero e proprio. E quando nei mesi successivi Ds e Margherita litigano a più riprese sull’opportunità di presentarsi uniti alle tornate elettorali in calendario, la posizione di Prodi è sempre funzionale non all’obiettivo finale (il Pd, appunto) ma alla creazione delle migliori condizioni per praticare la premiership.
Proprio come i Sa’ud, anche Prodi è attorniato da una corte mezzo intellettuale mezzo tecnica che svolge nei confronti del mondo esterno un’attività molto simile a quella degli ulema wahhabiti: scomunica avversari, lancia ultimatum, detta le linee di ogni possibile questione morale rivendicando al leader il monopolio della “bella politica”, anche contro l’evidenza dei fatti.
Tutt’altra storia con Parisi. Per il ministro della Difesa, come per i qaidisti, non c’è obiettivo intermedio, non c’è compromesso avanzato che giustifichi l’abbandono dell’obiettivo finale: il califfato che riunisca tutta la umma islamica, nel caso di bin Laden; un ulivismo che non si accontenti di farsi partito ma faccia piazza pulita dello stato di cose esistente, nel caso del ministro della Difesa. Parisi ha dimostrato più volte di essere pronto a sacrificare la leadership di Prodi – suo amico fraterno – pur di non cedere di un millimetro rispetto ai propri piani. Non si contano le volte in cui Prodi ha dovuto spendere tutto il suo credito verso il sodale di tante battaglie per costringerlo a recedere da iniziative unitarie che avrebbero messo in serio pericolo la sua leadership. Proprio una di queste, il referendum elettorale, pende ancora sul capo del Professore ed è la dimostrazione ultima che l’ulivismo parisiano non si appaga di un partito o di qualche amico ben piazzato ai vertici di Stato e para-Stato. Lasciamo stare che, forse, il referendum potrebbe persino tornare utile al periclitante Prodi di questi giorni. Quando è stato lanciato, col concorso attivo di Parisi, era chiarissimo che rappresentava una bomba a orologeria sotto il tavolo di Palazzo Chigi. Ciò non ha impedito al sociologo sardo di sostenerlo in ogni modo, anche sfidando l’ira del premier. E non c’è da dubitare che, in caso di necessità, Parisi non si fermerà davanti alle ragioni di sopravvivenza del governo. E’ questa la fitna ulivista, la guerra civile tra i padri del Pd, che è un altro degli ostacoli (nemmeno l’ultimo) sulla strada di Prodi.
“L’interesse della nazione islamica supera quello di un gruppo o di una nazione. La forza della fede è nel legame tra musulmani e non in quello di una tribù, o di una nazione, o di un leader”, scrive bin Laden nella sua lettera al popolo iracheno. Sostituite i sostantivi, e avrete una magnifica esternazione parisiana scagliata verso i miscredenti democratici.