Differenti e contrapposti concetti dell’arte sembrano avere caratterizzato i due principali eventi espostivi di quest’anno a Venezia: la 52esima Biennale, che chiuderà i battenti il prossimo 21 novembre, e la mostra “Artempo”, da poco conclusa. In breve: l’una è sembrata piegare fin troppo l’arte secondo il registro dell’ attualità, in un contesto piuttosto uniforme e oscillante fra intrattenimento e mera cronaca degli eventi, l’altra – con il suo profilo volutamente inattuale – ha invece consentito, per così dire, una decifrazione dell’arte in quanto tale, svelandone, nella disseminazione delle forme, delle epoche e degli stili, il carattere letteralmente “contemporaneo”, ancora capace di suscitare interrogativi e inquietudini circa il nostro modo di abitare il mondo.
S’immagini la facciata consumata dal tempo di un palazzo gotico veneziano, se ne immagini l’inconfondibile architettura, che intreccia agli echi bizantini la trama fitta degli arabeschi orientali. Ma poi si sovrapponga a questa immagine un tappeto dai riflessi cangianti, che a una più attenta osservazione si rivelerà essere un singolare arazzo composto di lattine vuote (opera dell’artista africano El Anatsui). Si sarà in tal modo già avuta una vaga idea della mostra “Artempo”. Non è stata casuale la scelta della sede, dimora di Mariano Fortuny, singolare figura di artista e collezionista, vissuto fra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, evocato anche da Proust nella Recherche. L’impostazione della mostra ha richiamato infatti direttamente l’idea delle Wunderkammern, sale in cui, a partire dalla fine del medioevo, nobili ed eruditi solevano raccogliere gli oggetti più disparati: dagli animali imbalsamati ai manoscritti rari, dalle preziose edizioni di libri alle reliquie fantastiche (corna di unicorno, uova di drago). Progressivamente, accanto a questi oggetti – ma spesso senza scalzarli – iniziarono a essere disposte vere e proprie opere d’arte, quadri e sculture, che finirono così per condividere i medesimi spazi riservati, per esempio, ai reperti di storia naturale. I curatori della mostra di palazzo Fortuny sono riusciti, con il loro allestimento, a reinterpretare in maniera creativa questo concetto, suggerendo una lettura riguardante lo statuto stesso dell’arte e il rapporto che essa intrattiene col tempo. Sicché, nelle varie sale, foderate dagli arazzi originali disegnati da Fortuny e illuminate dalle sue lampade, s’incontravano, ordinate in vetrine o ciascuna per sé, opere d’arte e cose, reperti archeologici, oggetti d’uso e forme minerali. Un’aria perturbante e claustrofobica dominava, per esempio, la sala in cui era posta una vetrina ingombra di oggetti macabri e surreali, rappresentazioni della “vanitas”, teschi e scheletri cesellati in avorio e legno, ammonimento all’inesorabile disfacimento e all’incombenza della morte, con accanto chimere imbalsamate, frutto d’incroci fra animali diversi, anticamente spacciate per mostri leggendari, lemuri, idre o basilischi. Ma, fra gli oggetti da laboratorio alchemico, la sorpresa e l’effetto di straniamento erano dati dall’incontro contestuale con le opere di Kapoor, Vedova, Burri, Fontana, con i corpi deformati e disfatti di Bacon, le figure distorte di Giacometti, i manichini metafisici di De Chirico, accostati, questi ultimi, a dettagliatissimi modelli anatomici dell’Ottocento. E ancora – come il parto allucinato d’un folle entomologo – sculture di coleotteri affiancate alle visioni esoteriche e notturne di Monsù Desiderio, maschere tribali e idoli arcaici accanto ai volti scomposti di Picasso. Come in un controcanto, si poteva poi incontrare l’abbacinante bianchezza della sala adiacente, con le sue tele d’interminabili numeri ossessivamente trascritti secondo il trascorrere dei momenti. Il tutto sembrava voler elencare le declinazioni del tempo secondo i modi di una storia naturale della “distruzione” ma non meno della “costruzione”, entrambe, in maniera ingovernabile, concesse dal tempo stesso alle forme della natura e dell’umano.
Il tempo è stato dunque il dichiarato protagonista della mostra, ma non già secondo la sua abituale declinazione lineare. No, piuttosto la sua presenza era esposta in base a una decisa verticalità, a strati, insomma, come nella sovrapposizione delle ere che è possibile indovinare attraverso le venature d’una lastra di marmo, nelle gemmazioni minerali d’una stalattite o nelle curve serpeggianti d’un corallo che richiama le forme d’un cranio. Ne è derivata una sorta di carta topografica della storia, là dove il tempo, mutando, pur si scopre nella consistenza della sua dimensione spaziale; mentre, al contempo, lo spazio si sfarina rivelandosi esso stesso nella sua materia fatta di tempo. Una sospensione della cronologia in favore d’una “archeologia della temporalità”, verrebbe da dire, decostruita e “stratificata”. Autori e opere fra loro distanti nel tempo, hanno potuto nondimeno mostrare la loro vicinanza entro medesime concrezioni di senso o segnalare, fra scarti, parallelismi, rovesciamenti, un’eccedenza nascosta e una enigmatica provenienza, rivelandosi in tal modo nella loro essenziale e contraddittoria contemporaneità. Non è un caso che tra le opere che con più frequenza capitava di scorgere nelle sale della mostra vi fossero i tagli nella tela di Lucio Fontana, che della sua opera ebbe a dire: “La scoperta del Cosmo è una dimensione nuova, è l’Infinito: allora io buco questa tela, che era alla base di tutte le arti e ho creato una dimensione infinita, una X che per me è alla base di tutta l’Arte Contemporanea”.
Ma, insieme, questo allestimento ha consentito il prodursi di un “corto circuito” e un contraccolpo essenziali: dalla cosa all’opera (d’arte), dall’opera (d’arte) alla cosa. Oscillando fra l’ostinata presenza delle cose nella loro originaria insignificanza e i sensi molteplici dell’opera, fra i sensi che si vogliono indovinare nelle cose e la materia muta che pur s’accompagna all’esserci dell’opera. Sicché la cosa sembrava d’un tratto dileguare nella inafferrabilità del suo senso nel medesimo istante in cui l’opera assumeva su di sé il compito di dischiuderlo e, al contempo, nell’opera sembrava rivelarsi – al di là della consapevolezza, della “intenzionalità” del fare artistico – la presenza muta e inspiegabile delle sole cose. Sta forse anche in questo la strana magia del collezionismo (collezionista fu Mariano Fortuny, collezionista è Axel Vervoordt, fra gli ideatori della mostra) allorché, affastellate fra quadri e oggetti, reperti archeologici e bizzarre manifestazioni della natura, le cose appaiono raccolte non tanto per amore di possesso, ma per il mistero che le abita. Ciascuna di esse testimone di segreti del passato ma insieme della enigmatica presenza del presente, e forse maggiormente lì dove cose e opere si offrono allo sguardo come materia che non parla, che non promette rivelazione alcuna e si dà nel suo stesso evento, ambigua e inquietante custode del proprio segreto.