Per paradossale che possa apparire a prima vista, alla radice delle ricorrenti polemiche sulla casta, i costi e il teatrino della politica sta una certa idea dell’Italia e degli italiani. Può apparire un paradosso, perché quella retorica parte proprio dalla negazione di qualsiasi legame tra popolo e “classe politica”, assolvendo il primo e condannando la seconda: di qua le vittime, di là gli oppressori. Eppure in quella retorica che da quindici anni scandisce come un basso continuo il nostro dibattito pubblico, al fondo, c’è una visione pessimistica del carattere nazionale, frutto di una concezione elitaria e antidemocratica della politica che con la crisi dei partiti e delle ideologie tradizionali, sfortunatamente, ha avuto largo corso anche a sinistra. Determinando così quello spirito del tempo che spiega meglio di qualsiasi inchiesta sociologica, demoscopica o giornalistica la perdurante egemonia berlusconiana.
Al fondo di tutto questo c’è un’idea dell’Italia quale emerge ogni giorno dalle cronache e dai commenti dei grandi quotidiani: un paese di sicofanti, intrallazzatori e beoti. Nella sua versione di sinistra – tutto è relativo, a questo mondo – non è che un utile corollario populista ai teoremi liberisti disegnati per gli intelletti più sofisticati. E’ l’artiglieria pesante che deve sgombrare il terreno dalle fortificazioni nemiche, aprendo varchi alle scorribande della cavalleria. Se la politica non è capace nemmeno di fare questo e neanche di fare quell’altro, come si ripete ogni giorno, se è solo il luogo in cui si sperperano i soldi degli onesti contribuenti per l’arricchimento personale di una casta odiosa e improduttiva, c’è solo una cosa da fare. E’ evidente: tagliare. Di qui la cantilena sul taglio ai costi della politica, quasi che per risolvere tutti i problemi del paese bastasse nominare un bravo manager, magari un McKinsey boy, alla guida di Palazzo Chigi. Qualcuno in grado di ottimizzare le risorse e produrre recuperi di efficienza, come in ogni azienda che si rispetti. Perché i politici, quando non corrotti, sarebbero comunque dei fannulloni. Con tutti i soldi che prendono, si ripete, dovrebbero almeno lavorare di più. Come se dovere del politico fosse produrre più leggi possibile. Tralasciamo la contraddizione tra un simile ritornello e l’altra abituale cantilena sull’eccessivo numero di leggi, norme e regolamenti, con le ricorrenti invocazioni allo “stato minimo” e via discorrendo. Non c’è bisogno di spiegare a nessuno la differenza tra la funzione di rappresentanza assolta da un politico e la funzione produttiva svolta da un operaio metalmeccanico. Ma è evidente quali sono l’origine dell’equivoco e la visione del mondo che ne è alla base.
Quello che non sempre si ha il coraggio di dire è invece il logico epilogo di un simile ragionamento. Se infatti il problema fosse semplicemente – come lasciano credere gli spacciatori della versione populista e “di sinistra” di questa retorica – la casta dei nostri corrotti e incapaci rappresentanti, odiose sanguisughe attaccate alle vene di un popolo incolpevole, la democrazia offrirebbe facilmente il modo di uscirne, senza bisogno di ridurre l’ambito di intervento del potere pubblico a quello di un vigile urbano tra gli interessi costituiti (che è invece precisamente l’obiettivo dei grandi giornali, o per meglio dire dei loro editori). Basterebbe che il popolo si desse una svegliata, magari anche grazie all’opera della libera stampa, e votasse per altri. L’obiezione che altri, buoni, non vi sono, sarebbe ovviamente indegna di simili intellettuali: se c’è la domanda, ce lo insegnano loro, la libera concorrenza non tarderà a far germogliare l’offerta corrispondente. E che nel proliferare di movimenti, partiti e partitini della società civile – quasi sempre tenuti a balia da quegli stessi grandi giornali – in Italia non ci sia libera concorrenza nel mercato della politica, ebbene, questo proprio non lo si può sostenere.
E così si arriva alla conclusione logica, sebbene implicita, di questa stucchevole retorica sulla casta. Il popolo, ufficialmente assolto da ogni colpa e anzi aizzato contro i suoi oppressori, né è in realtà il principale imputato. Non è agli attuali leader politici né agli attuali partiti che occorre tagliare le unghie, ma agli stessi elettori. E’ a loro che si vuole sottrarre il diritto di decidere delle sorti del paese, lasciando loro il solo diritto di scegliere il bravo amministratore che preferiscono mettere a dirigere il traffico.
La retorica “di sinistra” sul paese sbagliato, mancato o corrotto, sugli ideali traditi e sulla democrazia malata, sull’Italia di Alberto Sordi e sugli italiani capaci solo di arrangiarsi, alla fin fine, rappresenta la degna conclusione di questo ragionamento, in cui populismo ed elitismo marciano divisi ma colpiscono uniti la stessa base della democrazia rappresentativa. Non sarebbe male se nel “nuovo lessico” che il Partito democratico dovrà inventare, come ama ripetere Walter Veltroni, si cominciasse dunque con il togliere alcune di quelle vecchissime e abusate parole. A cominciare, va da sé, dalla parola “casta”.