Il Partito democratico è stato presentato in questi mesi come il partito della discontinuità e dell’innovazione. Di qui la “nuova politica”, la “nuova Italia” e persino il “nuovo lessico” che il Pd dovrebbe rappresentare, suscitare, inventare. Negli ultimi quindici anni, in effetti, non si direbbe che la politica italiana e il suo lessico siano molto cambiati. Ma la ragione sta anche nel fatto che da quindici anni, in Italia, si può discutere solo di parole. E questo è esattamente quello che fa Walter Veltroni, per esempio, quando ripete che “la sicurezza non è né di destra né di sinistra”.
Presa alla lettera, naturalmente, quella frase è un’ovvietà. Chi si sentirebbe di affermare che non solo la sicurezza, ma anche la salute, il lavoro, l’ambiente – e via elencando – siano di destra o di sinistra? Ma se ciascuna di queste cose, in sé e per sé, non è né di destra né di sinistra, per quale ragione dovremmo affidarne la cura alle forze politiche? Se la sicurezza non è né di destra né di sinistra – e non lo è perché, siamo pronti a scommetterci, è un “valore” – non dovremmo allora affidarne la cura semplicemente a dei bravi tecnici, magari riuniti in un’apposita authority? Se i politici giocano con le parole, preferendo occuparsi di valori (cioè di parole) piuttosto che di problemi (cioè di politica), la conclusione da trarne è semplice: non servono. Non stupisce, pertanto, che a utilizzare una simile retorica sia il Corriere della sera. Stupisce che a farlo sia il segretario del principale partito del centrosinistra. Se non per altro, per il nome che quel partito si è scelto. I valori sono sempre, per definizione, “non negoziabili”. Con i valori c’è poco da discutere, c’è solo da difenderli. Con i problemi, al contrario, c’è da discutere – eccome – sulle diverse soluzioni possibili. In Italia, però, si può discutere solo di parole. Ed è quello che fa il Pd, per fare un altro esempio, con la sua commissione di cento membri (da Piergiorgio Odifreddi a Paola Binetti) chiamata a scrivere la “carta dei valori” del nuovo partito.
E’ evidente il nesso tra l’orgia di valori nella retorica del Pd, con tutte le interminabili quanto inutili discussioni che ne conseguono su identità e simboli, e la scomparsa dell’unico simbolo realmente esistente nella storia di quel partito, l’Ulivo, cancellato dalla scenografia dell’assemblea costituente di Milano (e nelle intenzioni del segretario, a quanto pare, non solo da lì). Alla base di tutto sta il rovesciamento del rapporto tra le parole e il loro significato, tra simboli e storia. E così si continua a discutere di parole, simboli e identità come si discute di valori. Come se i valori avessero un valore in sé, e non per quello che rappresentano.
L’Ulivo non è soltanto il simbolo che gli elettori hanno trovato sulla scheda quando hanno eletto i parlamentari che oggi siedono nel gruppo “L’Ulivo – Partito democratico”. Non è soltanto il simbolo che hanno trovato sui gazebo delle primarie, dove hanno eletto Veltroni e tutti i costituenti. L’Ulivo è da dodici anni il simbolo di un preciso progetto politico, fondato sull’ipotesi che fosse possibile unire il centro cattolico e la sinistra democratica, dapprima in una coalizione e poi in un partito, con tutto quello che ne consegue (o per dir meglio: che ne era alla base) sul piano delle scelte politiche concrete, e che tutti gli italiani hanno potuto verificare in questi anni. L’Ulivo è semplicemente il simbolo di questa storia. E’ lo specchio in cui si riflette un’esperienza collettiva e che la rappresenta. Il Partito democratico è nato non per caso, e prima ancora di chiamarsi così, sotto quell’insegna. Se si vuole rinnegare quella storia e fare del nuovo partito qualcosa di completamente diverso, pertanto, si capisce che il simbolo non potrà più essere lo stesso. Se questo s’intende quando si parla di “nuova stagione” e “discontinuità”, nulla di male. Basta dirlo. Ma senza giocare con le parole.
Altrimenti, l’impressione è che tutto il retroterra politico e culturale del nuovo partito, tutte le sue radici storiche e ideali, si riflettano compiutamente nel nuovo logo di cui si parla e che abbiamo già visto alla costituente: il semplice acronimo “Pd”, due lettere bianche su fondo verde. Questo però significherebbe che si è scelta, senza dirlo, una strada precisa. Dal partito senza tessere al partito senza simboli. Un partito cioè senza sezioni e senza bandiere, senza luoghi in cui il suo popolo possa ritrovarsi e senza una storia in cui possa riconoscersi, perché quello che si vuole, in definitiva, è proprio questo: un partito senza popolo. Non stupisce, anche qui, che una simile prospettiva sia tanto apprezzata da direttori di giornale e politologi di varia estrazione. Stupirebbe molto, invece, se a farsene promotore fosse davvero il segretario del maggior partito del centrosinistra. Se non per altro, per il nome che quel partito si è scelto.