Il 22 Novembre Mario Draghi e Alessandro Profumo si sono diffusi, in ambiti diversi ma entrambi in lingua inglese, sulle prospettive dell’industria bancaria dopo la crisi dei mutui subprime. Draghi, che teneva una lettura presidenziale a Francoforte, ha descritto le fantastiche trasformazioni avvenute di recente nel settore bancario internazionale evidenziando due fattori: la crescita dimensionale da un lato; l’innovazione tecnologica e finanziaria, connessa al processo di “cartolarizzazione”, dall’altro. Tale doppia spinta ha portato alla trasformazione delle banche e dei mercati finanziari degli ultimi quindici anni: abbattimento delle segmentazioni regolative, liberalizzazione dei movimenti di capitale, nascita di enormi conglomerate finanziarie operanti su mercati “globali” e capaci di unificare, attraverso una estesissima rete al dettaglio, mercati molto differenziati per mezzo di una progressiva standardizzazione dei prodotti finanziari. Lo sviluppo delle transazioni borsistiche – più che proporzionale alla crescita del prodotto – connesso a quel tipo di attività bancaria ha costituito quindi il terreno per l’abbattimento delle barriere tra banche commerciali, banche di investimento e società assicurative. In queste conglomerate si è realizzata una riduzione dei costi di gestione che oggi incidono sul 40 per cento dei ricavi, rispetto a un precedente 60 per cento.
La crisi finanziaria attuale, legata alla vicenda dei mutui immobiliari scadenti concessi sul mercato americano, innesca secondo Draghi una crisi del business basato sulle cartolarizzazioni (o modello Otd: “originate to distribuite”) che costringe le banche a perseguire nuovi modelli operativi. Tuttavia il governatore ritiene difficile che si possa abbandonare lo strumento delle cartolarizzazioni e pensa che esso possa essere rilanciato e rafforzato da nuove regole improntate alla trasparenza e dal consolidamento della leadership del sistema delle banche centrali sui mercati finanziari.
Alessandro Profumo invece, sulle pagine del Financial Times, pur dichiarandosi ottimista sulla possibilità di superare in pochi mesi la crisi attuale, dichiara che – per quanto riguarda Unicredit – il modello costruito in precedenza, con una forte propensione alle cartolarizzazioni, non esiste più. Con l’evidente intenzione di suscitare stupore, dichiara che per il futuro bisognerà tenere dentro il bilancio della banca una quota molto maggiore dei crediti erogati e che quindi sarà necessario cercare di dare un carattere più dinamico e innovativo alle attività bancarie tradizionali, per fare fronte a quei dati di realtà che inducono a pensare che, per il prossimo futuro, occorreranno apporti di capitale maggiori per realizzare gli stessi volumi di ricavo. Caleranno cioè i profitti unitari delle banche.
La borsa, dopo aver giocato al ribasso per mesi sul titolo di Unicredit, ha reagito ad affermazioni così crude con un sorprendente rialzo del 4 per cento del corso azionario della prima banca italiana. Segnale caduco, senz’altro, ma un piccolo evento che forse rivela l’aspettativa di cambiamenti profondi. Il processo che sì è innescato sui mercati finanziari negli ultimi mesi, infatti, seppure non caratterizzato da irregolarità evidenti nella condotta dei principali operatori (e forse proprio per questo) è destinato a lasciare segni duraturi.
Cosa è accaduto davvero? Il problema non è stato la cartolarizzazione dei mutui scadenti, il problema – bello grosso – è stato, all’opposto, la loro mancata cartolarizzazione. Si stima che, per almeno un paio di anni, andranno all’incasso ogni tre mesi, presso le principali istituzioni finanziarie americane, circa 100 miliardi di dollari di aumento delle rate di mutui “subprime” a tasso variabile. Tali crediti, che sono insolventi già oggi in proporzioni vicine al 10 per cento, sono stati cartolarizzati poco e male (cioè non sono stati distribuiti a sufficienza presso il pubblico) e le perdite sono rimaste (e rimarranno) concentrate nei bilanci delle grandi banche americane, e in misura minore in quelli delle principali banche inglesi ed europee. Gli effetti di tali insolvenze sono dunque molto concentrati e colpiscono duramente l’epicentro del sistema finanziario.
Due dati, rivelati dalla crisi attuale, destano inoltre inquietudine circa l’ampiezza dell’aggiustamento che ancora attende l’economia statunitense e, di conseguenza, la nostra. Da un lato una fragilità insospettata di quel sentiero di crescita accelerata, trainata dal debito, che ha caratterizzato la politica economica più recente negli Usa: un semplice appannamento della congiuntura, qualche ombra di inflazione e un modesto rialzo dei tassi sono stati sufficienti a innescare una crisi creditizia e di liquidità di enormi proporzioni. D’altro canto, l’indebitamento esterno, la cedevolezza del dollaro e l’impasse strategica della superpotenza americana, dopo cinque anni di guerra, hanno fatto fallire il proposito di spalmare tali insolvenze sui mercati di tutto il mondo. Non si riesce più, da parte dell’America, né in modo consensuale né in modo conflittuale, a condividere, come ai tempi della prima e poi della “seconda” Bretton Woods, il pagamento dei conti a saldo di un sistema di alleanze internazionali in cui risultino chiari costi e benefici per ciascuno dei partecipanti in termini di sicurezza e sviluppo. Il sistema della finanza globale, che ha trainato la crescita occidentale negli ultimi venti anni costituendo un solido contraltare al boom delle economie emergenti, ha fatto confluire enormi ammassi di risparmio – frutto della crescita impetuosa dell’Europa, del Giappone e, a partire dagli anni settanta, dei paesi petroliferi – alle “merchant bank in cui si parla inglese” e al sistema finanziario da esse controllato. Questo è stato il modo di garantire rendimenti alti dopo la saturazione del ciclo di sviluppo nazionale degli anni sessanta, dopo l’instabilità dei settanta e gli alti tassi di interesse degli anni ottanta, decenni in cui si è esaurita la funzione dello Stato come principale intermediario finanziario.
Il modello della globalizzazione finanziaria, tuttavia, ha garantito enormi saggi di sviluppo del capitale essenzialmente sull’onda di bolle speculative che generano cospicui profitti nella fase ascendente e trasferiscono poi le perdite in una moltitudine di tasche diverse, nella fase dello sgonfiamento, per mezzo delle cartolarizzazioni. E’ stato così per il boom di borsa dell’86-87, per la bolla della net economy negli anni novanta, per quella finanziaria-immobiliare di oggi.
Il saldo di questo meccanismo, pur controverso nella misura in cui ha accresciuto le disuguaglianze, allentando per di più i nessi “pedagogici” tra ricchezza e produzione, è stato positivo in termini di ricchezza globale prodotta. Tuttavia il mancato trasferimento delle perdite che oggi si verifica genera un vulnus inedito che senza dubbio avrà effetti profondi e duraturi sui meccanismi fondamentali che presiedono al funzionamento dei mercati e delle banche.
Per questo appare velleitario il tentativo del banchiere centrale italiano di imprimere una svolta alla crisi esigendo trasparenza dalle norme e riaffermando “per ipotesi” la leadership delle banche centrali sui mercati finanziari, mentre risulta solo apparente il paradosso di quegli investitori che, profondamente disorientati, premiano in modo stupefacente i titoli di quella banca italiana il cui amministratore ha avuto il coraggio di dire che, in futuro, gli toccherà tornare all’antico, lavorare di più e guadagnare di meno.