Heidegger diceva che il problema dell’oblio dell’essere (qualunque cosa sia) sta anzitutto nel fatto che quel che è obliato è lo stesso oblio. Da un po’ di tempo a questa parte, il Foglio pensa la stessa cosa dell’Occidente. E i più avvezzi alle scorribande filosofiche non si sorprenderanno di trovare, in questa ardita analogia, l’Occidente nel posto augusto che il filosofema heideggeriano assegna all’Essere. Il Foglio pensa infatti che l’Occidente (ma più segnatamente l’Europa) sia malato, e che la principale manifestazione della malattia consista nell’ignorare di essere malato. È questa trascuratezza che aggrava la malattia, e che rende necessari i toni a volte bruschi del giornale. L’Occidente è debole e infiacchito. E, quel che è peggio, non è capace di diagnosticare con la necessaria severità la sua malattia, finendo anzi con lo scambiare per virtù – le virtù della tolleranza, della partecipazione, della democrazia, dell’uguaglianza, del rispetto dei diritti – quelle che sono invece debolezze, pavidità, cedimenti, pusillanimità, diserzioni. Si capisce dunque che il giornale non perda occasione per risvegliare le negligenti e imbelli élite politiche e culturali del nostro paese. Se per esempio uno studioso di fama mondiale, autore di fondamentali ricerche sulle religioni, capace di tenere insieme con maestria, e insieme frequentare, l’antropologia, la teologia, la filosofia, la letteratura e le scienze umane in genere, lancia l’allarme; se uno così, già varcata la soglia degli ottant’anni, pubblica un libro il cui titolo, “Achever Clausewitz”, non lascia dubbi – non lascia dubbi sul fatto che, qualunque cosa ci sia scritta, non è scritta per mammolette, visto che si tratta di Clausewitz, cioè di quello che diceva che la guerra è la continuazione della politica con altri mezzi, il che fa sperare a Il Foglio che nel libro si parli di cose preoccupanti come lo scontro di civiltà, il pericolo islamico, il jihad e i kamikaze – se insomma uno che si può definire con (troppa?) disinvoltura un “genio dell’umanesimo” lancia l’allarme, e l’allarme lanciato viene rilanciato da le Monde, allora vorrà dire che il Foglio ci ha preso, e occorre quindi dedicargli almeno un editoriale di aperto riconoscimento (e di malcelato compiacimento). In un editoriale del genere si scriverà per esempio che René Girard (è di lui che si tratta) “non si mangia la verità delle cose”, come certi filosofi relativisti nostrani, e soprattutto “non cade nel cinismo bonario e attendista della tolleranza verso gli intolleranti”, che sarebbe la malattia di cui sopra. Alla buon’ora! Girard è uno che le canta chiare, e che soprattutto vede bene in quale singolare torpore, in quale profonda cecità siano immerse le classi dirigenti europee: “Sono sempre più pessimista […].Ciò che intellettuali ed élite non vogliono intendere, le masse lo hanno capito”. Con rispetto parlando per un genio dell’umanesimo, molti proverbi e motti antichi potrebbero essere citati a questo proposito. Ad esempio: “Dum Romae consulitur, Saguntum expugnatur” (sottinteso: quindi, niente chiacchiere), oppure: “Il medico pietoso fa la piaga purulenta”(sottinteso: quindi, nessuna pietà). Il fatto è che l’idea che le distinzioni intellettuali siano un lusso che in tempi di crisi non ci si può permettere si è affacciata molte volte nella storia, e funziona così bene che a volte accade anche il contrario: si sollevano impetuosi venti di crisi perché siano lasciate cadere fastidiose distinzioni intellettuali.
Non è questo, tuttavia, il punto. Il punto sta nelle ultime parole del pensatore francese riprese dal Foglio: “La debolezza dell’Occidente è che non crede più ai suoi capri espiatori”. Ora, a meno che lettori e redattori del giornale non siano tutti ferventi lettori di Girard, uno si aspetterebbe che l’editorialista spiegasse cosa diavolo c’entrino i capretti, in questa faccenda. Se l’avesse fatto, ne sarebbe venuto fuori questo (in tre righe): che l’Occidente deve la sua superiorità morale al fatto che, grazie al cristianesimo, ha saputo svelare, e quindi superare, il meccanismo con il quale le società umane arcaiche canalizzavano la violenza su una vittima sacrificale (il capro, appunto). Per Girard, l’islamismo è invece una religione che conserva ancora un resto di violenza arcaica, ed è quindi ancora preda della spirale di risentimento e odio dalla quale solo l’annuncio cristiano ci libera (o ci libererebbe). Proprio perciò rappresenta una minaccia. Ma se il Foglio avesse fornito una spiegazione approssimativa del genere, avrebbe reso incomprensibile le parole citate: com’è possibile, infatti, che la debolezza dell’Occidente stia in ciò, che per Girard attesta pur tuttavia la sua superiorità (la rinuncia alla violenza sacrificale)? Il fatto è che le parole di Girard sono citate male. Su le Monde si legge infatti: “La forza e al tempo stesso la debolezza dell’Occidente…”, con quel che segue. L’editorialista ha insomma fatto una birichinata, una di quelle che i medici fanno quando, per dir così, mentono a fin di bene: dove Girard dice la forza e insieme la debolezza, il giornale italiano ha messo solo la debolezza, perché non stava bene che questa debolezza, che nelle intenzioni del giornale deve essere imputata all’Occidente, fosse presentata anche, e nello stesso tempo, come una forza. Anzi: come la vera forza spirituale dell’Occidente. E così il cerchio si chiude, perché, restituite a Girard tutte le sue parole, si scopre che il pensatore francese, che il Foglio vorrebbe arruolare in una nuova guerra santa, è invece, per questo aspetto, uno di quei malati che il giornale di Ferrara meno sopporta: uno di quelli che scambia cioè la malattia per virtù, e mena vanto e attribuisce a merito dell’Occidente la capacità di rinunciare alla violenza, invece di armarsi. Girard è infatti tutto meno uno che possa apprezzare l’ateismo devoto: ovvero, chiamate le cose col loro nome, l’uso politico della religione.