Seppure con qualche ritardo, presto sarà pienamente operativo il nuovo Programma europeo per il sostegno alle aree meno sviluppate, che riverserà nel mezzogiorno risorse aggiuntive per diverse decine di miliardi di euro. L’entità di queste risorse – e la circostanza (più che verosimile) che non potranno essere rese disponibili nella stessa misura anche per il periodo successivo – ha generato un ampio dibattito che, però, non ha toccato alcuni punti importanti.
La mia potrà apparire una lettura eccessivamente pessimista, ma l’impressione è che anche la recente pubblicazione dei risultati delle analisi di impatto dei fondi europei sulle economie regionali, sconfortanti per la generalità degli indicatori utilizzati (pil, occupazione, etc.), sia scivolata via senza particolari scossoni. Digerita come tante altre scomode verità del nostro Sud, che però notizie non sono perché le conosciamo già e le abbiamo tutti i giorni dinanzi agli occhi.
Certo, qualche punto sufficientemente chiaro è emerso. C’è un’ampia convergenza di opinioni, per esempio, sul fatto che si debba evitare la frammentazione della spesa in mille rivoli per concentrarsi invece su alcuni assi di intervento. Quello che invece non emerge con chiarezza è il capovolgimento di logica che questa nuova strategia di spesa implica. Il corollario della politica di focalizzazione degli investimenti è la riorganizzazione complessiva del ruolo svolto dagli attori coinvolti sul territorio. Riorganizzazione che passa per maggiori responsabilità dell’ente regione, non solo nella definizione delle priorità di spesa, ma anche nell’articolazione in progetti strategici che puntino a fare sistema fra gli attori coinvolti, con un monitoraggio costante degli esiti di tali progetti.
In altri termini, senza una riforma della struttura organizzativa della regione, all’interno di un correlato disegno di riforma dei rapporti fra regione ed enti locali (teso anche a una semplificazione dei livelli coinvolti nella programmazione degli interventi), questa nuova strategia di spesa rischia di essere velleitaria. I tempi però stringono, soprattutto se si tiene conto del fatto che non si tratta soltanto di disegnare “sulla carta” una nuova organizzazione, ma di farla funzionare con le risorse umane che ci sono. E qui incrociamo un tema sensibile, che è costato già caro in termini di immagine alle nostre amministrazioni regionali – e che la destra certamente cavalcherà con decisione nelle prossime tornate elettorali – che è quello delle consulenze esterne e più in generale della proliferazione di un ceto para-professionale che ha tratto maggiore giovamento personale dai precedenti programmi europei. Intendiamoci, senza con questo giustificare le degenerazioni, si può capire la spinta iniziale delle amministrazioni alla creazione di una tecnocrazia esterna all’organizzazione regionale, soprattutto se non dimentichiamo lo stato disastroso della macchina regionale. Decenni di assunzioni clientelari e di posti assegnati per fedeltà politica non si possono liquidare facilmente. Il ricorso a una tecnocrazia esterna, dunque, se è potuto apparire legittimo in un momento iniziale per supplire alle carenze della macchina regionale, dal momento in cui ha replicato le stesse logiche di reclutamento, ha funzionato male ed è stato percepito ancora peggio dall’opinione pubblica.
Le proposte che si possono avanzare viaggiano pertanto su un doppio binario. In primo luogo, occorre mettere rapidamente mano a un progetto di riconversione di buona parte dell’attuale organizzazione (sia nelle modalità di funzionamento, sia nelle competenze delle risorse umane) che sia coerente con la nuova strategia. Ovviamente, andrebbe messo nel conto un oculato inserimento di risorse giovani e qualificate, magari in parallelo con una sorta di scivolo per i quadri e dirigenti più difficili da recuperare.
In secondo luogo, e qui so di andare controcorrente, non penso che si possa fare a meno di competenze esterne. Anzi, credo che queste siano e saranno sempre più necessarie per la complessità e il contenuto specialistico degli interventi da mettere in campo. Si deve però passare da una tecnocrazia esterna “scritturata” per funzioni da espletare a una tecnostruttura esterna “scritturata” per obiettivi da raggiungere. Non troverei scandaloso, ad esempio, un sistema snello ed efficace di agenzie regionali, in cui concentrare queste competenze specialistiche indispensabili, purché queste, sulla base di una precisa scheda di risultati da raggiungere fissata dal governo regionale, sia capace di elaborare e guidare progetti complessi con le risorse europee che verranno.
Penso che entrambe tali strade siano necessarie e nell’interesse dei cittadini del mezzogiorno che devono pretendere risultati migliori nell’utilizzo di queste preziosissime risorse. Il vero problema che soluzioni di questo genere presentano è ovviamente di natura politica. Possono le amministrazioni regionali perseguire queste strade, che paiono obbligate, senza essere accusate di replicare in forme nuove vecchi vizi di occupazione del sottobosco amministrativo. E farlo, soprattutto, senza cadere effettivamente in questa tentazione?