Le voci femminili in musica hanno spesso qualcosa di speciale, c’è poco da fare. Certamente in misura superiore a quanto non accada con quelle maschili, di questi tempi un po’ tutte uguali, con le dovute eccezioni. Naturalmente non è che si possa ridurre tutto a una questione di corde vocali e di cavità faringea. La voce va usata come si deve, ed è dall’uso che se ne fa che si misura il talento, molto prima che dal timbro o dall’estensione. Avendo sia pure in maniera più che approssimativa definito un criterio, è naturale chiedersi a chi tra le nuove leve sia di conseguenza il caso di rivolgere la propria attenzione, ed è così che ci viene in mente che almeno un fenomeno, nel senso di artista fenomenale, in circolazione lo si trova, e risponde al nome di Amy Winehouse. La ragazza inglese è parecchio turbolenta e i suoi vizi certamente non ci interessano (problemi suoi) se non per la preoccupazione che in noi inducono di ritrovarla, nella migliore delle ipotesi, chiusa a disintossicarsi da qualche parte, invece che a farci godere delle sue interpretazioni. Ma è di talento puro che si sta parlando, di una maturità interpretativa che stupisce se solo la si rapporta ai ventiquattro anni che la Winehouse ha da poco compiuto. Il canto è diretto, lineare, esprime una grande capacità di variare più volte e in maniera mai banale anche la stessa frase (si ascolti ad esempio il finale della splendida “Stronger than me”) ma mai nessuna ridondanza è imposta a chi ascolta, mai nulla ci arriva da lei allo scopo di ricordarci gratuitamente che siamo di fronte a una virtuosa della voce. Non solo, ma la Winehouse non è nemmeno una semplice interprete. Quasi tutte le canzoni dei suoi due album, “Frank” del 2003 e “Back to black” del 2006, sono state interamente scritte da lei, e di queste un buon numero è quantomeno degno di nota (album belli dall’inizio alla fine, ahinoi, semplicemente non esistono). Anche quando si cimenta con le cover i risultati sono notevolissimi. Per convincersene basterebbe già la sola “Will you still love me tomorrow”, versione di un pezzo di Carol King di cui l’unica cosa che non si capisce è il perché appaia soltanto nella colonna sonora di un filmetto tutt’altro che imprescindibile (“Che pasticcio, Bridget Jones!”).
Parallelamente, l’interesse al bel canto sembra ormai riguardare anche diverse giovani esponenti della musica nostrana. Ma a un impegno testimoniato da rispettabili attività di studio portate avanti non senza coraggio anche oltre oceano, purtroppo, ancora non corrisponde quello che ad esempio la Winehouse tira fuori chissà da dove, senza che abbia avuto nemmeno tanto tempo, vista l’anagrafe, né particolari occasioni, vista la provenienza, per studiare. Prendiamo il caso della salentina Amalia Gré. Quasi vent’anni più della Winehouse, diversi anni passati negli Stati Uniti, seguita e incoraggiata, si legge e si sa, da gente del calibro di Betty Carter, Bobby McFerrin, Herbie Hancock, incline ad atmosfere jazz più che soul, una discreta popolarità tra gli addetti ai lavori, due album, “Amalia Gré” e “Per te”, pubblicati nel 2004 e nel 2006, una partecipazione all’ultimo Sanremo con una buona canzone, “Amami per sempre”, nel segno dell’artista di qualità messa lì a risollevare un po’ il livello abitualmente basso della manifestazione. Ci sarebbe di che rallegrarsi a guardare questo curriculum: italiani che cercano finalmente di sprovincializzarsi, che provano a puntare un po’ più in alto del solito. Tutto bene, dunque? Purtroppo no. La Gré non convince, e ovviamente non perché non abbia grandissimi mezzi vocali. Non è questa la sua colpa, tutt’altro. Il problema comincia nel canto, in un’idea non condivisibile di interpretazione che si traduce in un eccesso di personalizzazione dello stile, in un essere principalmente preoccupati di rendersi riconoscibili a tutti i costi, il mettersi davanti e non dentro la canzone che si è scelto di interpretare (chi si ricorda di quello che una volta Dino Risi disse delle interpretazioni di Nanni Moretti?). E così Amalia si arrampica su inutili asperità che lei stessa crea ad arte, laddove sarebbe obbligatorio procedere in linea retta, ritarda e anticipa sul tempo invece di tenere il passo dei musicisti che egregiamente la accompagnano, svolazza nei casi in cui ci si aspetterebbe il rigore, ricorre spesso a una specie di discutibile falsetto, non sappiamo se per scelta o per mascherare una difficoltà di estensione, in contesti in cui tale scelta è visibilmente controindicata. Anche sui testi ci sarebbe per la verità da ridire. Solo per fare un esempio, che noia sentire in uno dei suoi pezzi più celebrati, “Io cammino di notte da sola”, che mentre i comuni mortali dormono, lei invece cammina da sola, ride, piange e poi aspetta l’aurora, perché d’altra parte cosa può farci lei, è questa l’altalenante vita dell’artista (sì, dice proprio così).
Un equilibrio decisamente superiore lo si ritrova invece nel canto e nella produzione di un’altra italiana che già da diversi anni vive e lavora all’estero, Chiara Civello, trentaduenne pianista e chitarrista romana che nel ’94 ha fatto le valigie e se ne è andata a studiare a Boston. Anche qui attenta formazione sulla canzone jazz, ma con successiva deviazione verso il pop, passando per contatti importanti come Burt Bacharach, che dice “Chiara is potentially a huge singer songwriter star”, e Tony Bennett che addirittura la definisce “the best jazz singer of her generation”, per arrivare infine al contratto con la prestigiosissima casa discografica americana Verve con la quale nel 2005 pubblica il suo primo disco, “Last quarter moon”. Di fondo un’idea non banale che, condivisibile o meno che sia (qui sostanzialmente la si condivide), le fa onore per chiarezza d’intenti: “Il messaggio pop è più corto, immediato, secco. Va direttamente al cuore di quello che vuoi comunicare. Uno dei difetti del jazz sta nell’autocompiacimento, in troppa sofisticatezza, in assoli e note autoindulgenti”. Caspita, che coraggio! Una gentile signorina venuta da chissà dove che parla chiaramente di quello che è di solito un tabù, lamentando senza mezzi termini forme di autocompiacimento del jazz (o, diciamo, di certo jazz, così ci si mette più al riparo). Bene, complimenti. Poi però viene la cosa più importante, e cioè la valutazione della sua musica, e qui il discorso si fa più articolato. “The space between”, uscito solo qualche mese fa, è nel complesso un bell’album, molto curato, ben suonato da musicisti della scena newyorkese, ottimamente cantato, con solo due delle tredici canzoni cantate in italiano, una delle quali, “Un passo dopo l’altro”, è probabilmente la migliore. Ma per lasciare veramente il segno ci vuole qualcos’altro, ci vuole una tensione che poche volte emerge dall’album, bloccato com’è da questioni di stile. Per questo si lasci perdere il canto troppo sommesso, si metta al bando la stucchevolezza di certe atmosfere simil-bossanova, e soprattutto si abbia il coraggio di rischiare, evitando di accumulare quell’eccesso di patina che, certo, può dare sicurezza, ma nella sostanza finisce sempre per appesantire il volo. Insomma, da una musicista brava come la Civello è lecito aspettarsi che non si accontenti di rimanere a dondolarsi piacevolmente in superficie. Le gemme, ammesso che si abbia voglia di cercarle, necessitano di un duro e faticoso lavoro di scavo, e fin qui, purtroppo, è stata soltanto rimossa un po’ di terra. Ma in ogni caso in Chiara è lecito riporre aspettative – molto più che in Amalia, per la verità – e molto conterà la consapevolezza di essere all’inizio, e non già al vertice, di una traiettoria complessa dagli esiti non prevedibili.