Nel referendum di domenica scorsa, voluto per aumentare i suoi poteri e soprattutto per ottenere il diritto a ricandidarsi come presidente, Hugo Chávez non ha combattuto contro le multinazionali del petrolio, né contro il governo degli Stati Uniti, né contro la ricchissima aristocrazia del suo paese. Contro questi soggetti Chávez avrebbe probabilmente trovato ancora una volta il favore popolare. Ma la campagna referendaria ha visto progressivamente emergere, alla guida del fronte del No che si è imposto nelle urne, la Federazione dei centri studenteschi dell’Università centrale del Venezuela. E contro gli studenti il presidente ha capitolato.
Questa dinamica riporta alla mente la crisi più drammatica del peronismo argentino: il primo maggio del 1974 si produsse la definitiva frattura tra il vecchio Juan Domingo Perón, da poco rieletto presidente, e il mosaico dell’associazionismo studentesco. Nel suo discorso tenuto dalla Casa Rosada per la festa del lavoro, il leader si rivolse in modo sprezzante verso i giovani, che avevano condotto nei mesi precedenti una dura requisitoria contro le burocrazie sindacali e la destra peronista. Perón attaccò frontalmente, definendoli “imberbi”, i membri della Juventud Peronista, i Montoneros e gli studenti, i quali, per tutta risposta, lasciarono Plaza de Mayo mentre il presidente parlava, facendo sfilare i loro striscioni verso le vie laterali e lasciando vuoto un ampio settore della piazza. Crollava così il difficile equilibrio tra le diverse anime del peronismo, e il paese si avviava non verso una più avanzata democrazia, come credevano quegli studenti, ma verso una dittatura militare ferocissima.
L’America latina è un continente ancora prevalentemente agricolo, con una classe operaia molto ristretta. Gli studenti universitari rappresentano quindi il più forte soggetto di mutamento, con una straordinaria capacità di orientamento sul resto della società: il presidente venezuelano li ha avuti dalla sua parte in tutta la fase ascendente della propria vicenda politica, finché ha interpretato gli interessi della nazione e della sua parte oppressa. Ma il tentativo di far evolvere la democrazia venezuelana in senso cacicchista e personalistico ha determinato la progressiva rottura tra il leader e i giovani delle università di Caracas. L’immagine emblematica della crisi politica è stata fotografata lo scorso 7 novembre, quando bande armate a volto coperto, formate presumibilmente da abitanti poveri delle favelas della capitale, hanno assaltato a colpi di armi da fuoco le dimostrazioni studentesche contro la riforma costituzionale voluta dal presidente. I due schieramenti che si sono fronteggiati quel giorno incarnavano la rottura di due esigenze divenute opposte: la democrazia formale e la democrazia sociale. Ma la seconda non si dà senza la prima, come dice un motto che, a quanto pare, circolava tra gli esuli cileni, argentini e brasiliani negli anni Settanta, a Città del Messico: “Alla seconda sessione di tortura si capisce perfettamente come l’habeas corpus non sia una conquista solo formale”.
Da questa sconfitta del chavismo si possono trarre diverse considerazioni politiche. Si può per esempio osservare come quella che era una delle poche democrazie funzionanti dell’America latina, imperniata su due partiti di tipo europeo, uno cattolico e uno socialista, sia potuta andare in crisi per la dilagante corruzione, alimentata dall’economia petrolifera, e per il suo disinteresse verso la crescente miseria e l’imponente marginalità sociale. Democrazia formale senza democrazia sociale, appunto.
Ma si può vedere nella parabola di Hugo Chávez, ormai ridotta a esperienza locale e non più paradigmatica della condizione politica dell’intera regione, un monito per i tanti aspiranti cacicchi sparsi per il mondo. Il ripiegamento in senso personalistico delle esperienze politiche organizzate non rappresenta un’evoluzione necessaria nel tempo attuale, come tanti teorici vanno sostenendo, ma un ritorno della politica a modalità pre-moderne, come hanno denunciato e dimostrato gli studenti venezuelani. Se avesse voluto dare corpo al socialismo del XXI secolo, Chávez avrebbe dovuto costruire un partito organizzato, in cui potessero crescere nuovi quadri, attraverso cui fornire il paese di una solida classe dirigente in un regime politico di alternanza, invece che investire sul prolungamento dei propri mandati presidenziali. La politica non poteva che dargli torto.