Quattro operai sono morti

Quattro operai sono morti a causa dell’incendio che si è sviluppato mercoledì sera in una grande fabbrica di Torino, appartenente a una delle principali multinazionali del settore, la tedesca ThyssenKrupp. Giornali e telegiornali ne hanno parlato a lungo, com’era giusto fare, con un cospicuo numero di pagine e di servizi, inchieste, interviste. Eppure, nello scrivere i nomi delle quattro vittime, dobbiamo consultare quelle pagine per non sbagliare: Antonio Schiavone, Roberto Scola, Angelo Laurino e Bruno Santino. I nomi del sindacalista o del responsabile dell’azienda, l’esatto numero degli estintori, la dinamica dei fatti e tutti gli altri particolari della vicenda sembrano già impossibili da ricordare con precisione. Eppure non avremmo difficoltà a scrivere correttamente, senza bisogno di controllare, i nomi di Amanda Knox o di Raffaele Sollecito; ricordiamo perfettamente, pur senza avere mai letto per intero un solo articolo al riguardo, il coltello, il numero dei sospettati e le diverse ipotesi sulla dinamica dei fatti. Del delitto di Perugia, anche senza volere, sappiamo tutto. Del delitto di Torino, anche volendo, non ricordiamo nulla. Il coltello colpisce subito la nostra immaginazione e vi rimane impresso indelebilmente (per non parlare dell’orgia); l’estintore che non funziona, che spruzza acqua in faccia all’operaio che cercava di salvare i suoi colleghi – un’immagine pur così carica di forza drammatica – si dimentica subito. Forse è naturale che sia così. Nessun romanziere venderebbe milioni di copie con una storia di operai ed estintori che non funzionano; con una storia di sesso, droga e morte si vendono milioni di copie da centinaia di anni. E sarebbe stupido trarne conclusioni moralistiche sulla perversità della natura umana, così come sarebbe stupido prendersela con gli editori.
La ragione per cui la morte di quattro operai ha avuto per una volta, almeno, il triste onore delle prime pagine è la stessa per cui, nonostante tutto, facciamo fatica a trattenerne i dettagli e l’emozione nella nostra coscienza: perché è una notizia strana. E’ strana perché le vittime non sono operai in nero, e magari anche neri di pelle o comunque clandestini, impiegati in qualche oscura ditta subappaltatrice di costruzioni, in qualche sperduta provincia del Sud. E’ strana perché riguarda quella “aristocrazia operaia” – e suona giustamente macabra, adesso, questa espressione – che nel dibattito pubblico siamo abituati a considerare come una specie di “casta” (sicuramente qualcuno li ha già chiamati così), come gli “iper-garantiti”, come una di quelle “sacche di privilegio” da smantellare. E’ una notizia strana perché si sposa malissimo con tutte le altre di cui discutiamo abitualmente. Dopo avere inventato persino una “questione settentrionale” per nascondere l’unica vera enorme questione nazionale che si pone da centocinquant’anni in Italia – la questione meridionale – abbiamo cancellato la stessa idea del conflitto sui luoghi di lavoro e della lotta per i diritti, chiamandoli privilegi e mettendo tutti sullo stesso piano: impiegati ministeriali e operai delle acciaierie, bidelli e lavoratori di call center. Una gran parte di responsabilità, in questo livellamento insensato che ci ha resi tutti ottusi, inutile nasconderlo, ce l’ha il sindacato. Ma ce l’ha anche una cultura dominante che sin dagli anni Ottanta è divenuta largamente egemone, innanzi tutto tra i giovani. Quanti di coloro che oggi lavorano senza contratto e senza garanzie, per stipendi da fame, nelle università come negli altoforni, oggi non sarebbero prontissimi a scambiare uno stipendio migliore con l’inosservanza delle più elementari norme a tutela dei loro diritti e della loro sicurezza, ammesso e non concesso che di quelle norme attualmente godano, e abbiano dunque qualcosa da scambiare? Eppure ci sarebbe molto da discutere, anche a sinistra, su diritti e privilegi di quei lavoratori che godono della tutela dell’articolo 18, sulla precarietà, sui giovani, sul funzionamento di un sistema di tutele e garanzie che oggi copre – e molto imperfettamente – un numero sempre più esiguo di persone.
Domenica, però, la prima pagina di Repubblica si apriva con questo titolo: “Morti bianche, sì al carcere”. E all’interno: “Giro di vite sulla sicurezza”. Sembra la seconda puntata della squallida telenovela già andata in onda, dopo l’efferato omicidio di Giovanna Reggiani da parte di un giovane rom, sul pacchetto sicurezza (e infatti il ministro Ferrero vorrebbe inserire proprio qui anche queste nuove norme, che ancora non si sa nemmeno quali siano). Tra poco, potremmo scommetterci, qualcuno si alzerà a dire che ci vuole “tolleranza zero” sui cantieri. Unica e amara consolazione, dinanzi a una simile demenziale coazione a ripetere del nostro dibattito pubblico, durerà poco (magari non così poco quanto è durata l’attenzione del Sole 24 Ore alla vicenda, ma poco lo stesso). Il prossimo delitto compiuto da qualche immigrato basterà a riportare tutto questo armamentario ai suoi luoghi abituali.
La ragione per cui fatichiamo a ricordare nomi, fatti e particolari della strage di Torino è la sua irriducibilità al racconto cui siamo abituati. All’idea, per esempio, che il numero e la manutenzione degli estintori sia una delle tante assurdità burocratiche imposte dallo stato. Nessuno è così pazzo da non capire a cosa servono gli estintori, dinanzi a un incendio. Ma appena quell’incendio si spegne, persino l’estintore può tornare nel mazzo delle tante inutili e noiose norme da ottemperare. Eppure l’incendio della ThyssenKrupp divora da tempo il nostro paese. Quest’anno ha già inghiottito quasi mille persone. Ma non ne parliamo. Di quelle persone non ricordiamo nemmeno i nomi. E li lasciamo in bianco, così come “bianca” chiamiamo pudicamente la loro morte, quasi si trattasse di un incidente stradale. Dinanzi a questo desolante spettacolo, il presidente del Consiglio prima e ora anche il presidente della Repubblica hanno detto parole chiare, giuste e misurate. Quella che abbiamo dinanzi è un’enorme tragedia nazionale. Speriamo che anche i tanti diversi attori del nostro dibattito pubblico, a cominciare dalla politica e dai vertici dei maggiori partiti, sappiano trovare parole adeguate. E non solo in questa triste occasione.