L’ultimo numero della rivista “Filosofia e Questioni Pubbliche” è dedicato a una riflessione sulla cultura politica del Partito democratico. Il volume raccoglie i contributi di diversi filosofi politici italiani, che si interrogano sui possibili riferimenti teorici e culturali del nuovo partito in relazione ad alcuni temi centrali dell’agenda politica interna e internazionale (questioni di genere, multiculturalismo, scienza e laicità, diritti umani nel mondo globale, bioetica, responsabilità sociale d’impresa, welfare, istruzione e ricerca). Nell’introduzione al volume, Sebastiano Maffettone insiste sull’eccezione che la scelta di misurarsi con un tema legato all’attualità ha rappresentato per una rivista e per un insieme di studiosi impegnati su temi teorici e sempre molto attenti a non confondere “la politica con la teoria politica”. E, in effetti, la scelta non può che essere salutata come un fatto significativo: un gruppo importante di studiosi si interroga sulla nascita del Pd non semplicemente per la novità oggettiva che essa rappresenta, ma anzitutto sulla base della convinzione che tale evento costituisca un’occasione difficilmente ripetibile per superare la crisi del sistema politico-istituzionale italiano e per svecchiare la stessa cultura politica del nostro paese.
Non si possono qui esaminare nel merito i singoli contributi (sebbene alcuni, come quelli sul welfare e sul sistema universitario, siano molto incisivi, specie rispetto alle incertezze riformatrici del centrosinistra italiano). Quello che interessa di più è il significato politico-culturale dell’insieme dei contributi, indicato con chiarezza nell’introduzione: l’obiettivo è quello di verificare se con la nascita del Pd l’Italia possa recuperare il suo storico deficit di cultura e di prassi politica di ispirazione liberale. Non si adopera l’espressione “rivoluzione liberale”, né si cita Gobetti, e si comprende presto anche il perché.
I principi liberaldemocratici a cui ci si richiama sono quelli della tradizione anglosassone, perché si ritiene che “tutta la cultura politica del secolo ventesimo nell’Europa continentale non scandinava ha mostrato un illiberalismo di fondo”. La tesi è in effetti un po’ forte e i riferimenti successivi non aiutano a sostenerla fino in fondo. Ad esempio, si afferma che la filosofia politica italiana nel Novecento (“dall’abbraccio al fascismo di Gentile al liberalismo storicistico di Benedetto Croce, dall’egemonia culturale del marxismo gramsciano passando per il cattolicesimo”) assai raramente si sia ispirata a “Locke, Kant, Tocqueville, Constant”. Dall’elenco dei numi tutelari della tradizione liberaldemocratica sembrerebbe così che almeno Germania e Francia si trovino in una situazione migliore della nostra, a meno di non voler considerare Kant del tutto estraneo alla tradizione culturale tedesca e Constant e Tocqueville a quella francese (ma forse questa è una tesi eccessiva anche per chi non fa velo della sua preferenza per la cultura anglosassone).
Invece, nessun pensatore italiano di rilievo può essere inserito in questa linea teorica: certo non Gentile, né Gramsci (e fin qui si comprende), ma neppure Croce e Bobbio. Si riconosce che “sarebbe impossibile riassumere in poche righe il significato delle difficoltà nei confronti del liberalismo di questi autori così meritevoli e in un altro senso convintamente liberali”, ma evidentemente il paradigma liberaldemocratico assunto deve essere davvero molto esigente, al punto da non lasciare scampo non solo a Croce, ma neppure a Bobbio (e qui devo confessare di essermi sentito anch’io, nel mio piccolo, inchiodato a posizioni illiberali). Le uniche eccezioni vengono individuate nelle figure di pensatori sociali come Salvemini e Cattaneo, che non mutano tuttavia il quadro di “un clima politico-culturale e filosofico fondamentalmente anti-liberale, spiritualistico e anti-scientifico, clima spesso rafforzato dall’ideologia cattolica sempre significativa in quello che è dopo tutto il paese in cui ha sede il trono di Pietro”.
Ora, beninteso, queste tesi non sono certo nuove, né prive di un qualche fondamento storiografico. Quello che non si comprende è come si possa immaginare una proposta normativa di cultura politica liberale per il nascente Partito democratico in totale contrapposizione con la vicenda ideologica e culturale del Novecento italiano. Davvero pensiamo che il liberalismo del Pd possa originarsi da un tale atto di rottura e di estraniazione rispetto alla storia nazionale? Intendiamoci, qui non si tratta di essere, sul piano filosofico, storicisti piuttosto che analitici. Il punto è se sia pensabile che l’ispirazione liberale del nuovo partito possa essere definita prescindendo dal contesto italiano. Conviene forse fare qualche esempio più concreto.
Il rapporto con il mondo cattolico è una delle istanze fondamentali alla base del progetto del Partito democratico. Se a un certo punto, a sinistra, ci siamo convinti che in Italia non c’erano le condizioni per costruire una forza socialdemocratica classica di tipo europeo è stato anche in virtù del riconoscimento della specificità della vicenda politica italiana (legata certo anche alla presenza in Italia del “trono di Pietro”). Un grande partito popolare può rendere credibile la sua fisionomia laica e liberale solo se sa confrontarsi senza imbarazzi con la storia e la composizione sociale del suo paese, ricercando i punti di equilibrio più avanzati senza inseguire modelli astratti.
Su un altro versante, la critica allo statualismo in nome di un paradigma dei diritti umani di indirizzo globalista, ispirato principalmente a Rawls e Habermas, è certo interessante sul piano teorico, ma forse, oggi, nel nostro paese, uno dei primi compiti di un progetto politico che metta al centro i diritti e le libertà individuali è proprio la ricostruzione di una dimensione credibile della statualità italiana. Solo uno stato che restituisca efficienza e tempi certi al funzionamento del suo apparato amministrativo e giudiziario può rappresentare una garanzia effettiva, verificabile in base a standard liberlaldemocratici, per quei diritti che oggi trovano riconoscimento anche a livello europeo.
Detto questo, va riconosciuto senz’altro alla rivista il merito di aver introdotto un punto di vista stimolante in una discussione sui fondamenti culturali del Pd che sembrava essersi arenata. La debolezza di questa discussione rischia di essere l’altra faccia di un nuovismo un po’ furbo e un po’ cinico, che immagina di sfuggire a un confronto impegnativo sulla natura e i caratteri del Pd trincerandosi nella retorica del partito dei giovani e delle donne, del partito del nuovo secolo, del partito assolutamente originale, senza radici né alcun termine di paragone in tutto il resto del mondo. Rispetto a questo, pure il modello liberaldemocratico di stampo anglosassone, con tutte le critiche che si possono fare, rappresenta una straordinaria iniezione di concretezza e di onestà intellettuale.