Finirà così. Finirà che il governo Prodi cadrà, andremo alle elezioni anticipate con l’attuale legge elettorale e Silvio Berlusconi vincerà con una larga maggioranza – se non altro per la divisione degli avversari – ma non potrà nemmeno cominciare a governare, perché Romano Prodi sarà reintegrato a Palazzo Chigi da una sentenza del Tar. Finirà che Clementina Forleo e Luigi de Magistris chiederanno l’arresto dei magistrati che li accusano e dei membri del Csm che li giudicano responsabili di gravi scorrettezze, Michele Santoro e Beppe Grillo mobiliteranno le piazze, Corriere della sera e Repubblica mobiliteranno giornalisti e intellettuali, finché Clemente Mastella non chiederà l’intervento dei carri armati contro i manifestanti, che nel frattempo avranno circondato il ministero della Giustizia. E poi dicono che l’Italia è un paese triste.
Le analisi ruotano tutte attorno allo stesso concetto: specchio rotto, maionese impazzita, mucillagine informe. Questo sarebbe lo stato della società italiana. Il basso continuo che viene dal sistema dell’informazione è però un altro. Il paese starebbe benissimo, ci dicono, perché la “società civile” e le sue tante “risorse nascoste” rappresentano un patrimonio di “spirito civico” e “voglia di fare” inestimabile, se non fosse per il peso insopportabile della “casta” al potere, partiti di governo e di opposizione, senza distinzioni. Ma dopo l’assalto delle guardie giurate alla Camera e il blocco degli autotrasportatori che ha paralizzato il paese, mentre l’Alitalia resta invenduta come un fondo di magazzino e la Cgil minaccia mobilitazioni “senza il rispetto di forme, garanzie, sentieri di sorta” – e si capisce – dopo tutto questo e in attesa di leggere le intercettazioni telefoniche del presidente della Repubblica e del Papa che qualche sostituto procuratore, prima o poi, non mancherà di fornire ai giornali, ebbene, quel basso continuo rischia di diventare una marcia funebre. Le note le conosciamo bene, perché appartengono da quindici anni alla colonna sonora della Seconda Repubblica. E’ il ritmo indiavolato che ci ha portati sin qui. Forse sarebbe ora di sedersi un momento e rifletterci su.
Da quindici anni l’Italia è preda di simili crisi ricorrenti. Le crisi passano, certo, ma lasciano ogni volta il paese più debole, stordito e incapace di ricostituire le proprie difese immunitarie. Per giorni Corriere della sera, Repubblica, Espresso hanno dedicato paginate al passaggio ottenuto dal ministro della Giustizia sul volo di stato occupato dal vicepremier Francesco Rutelli. Uno “strappo” che al contribuente, come avevamo già notato a suo tempo, banalmente, non è costato un centesimo. Qualche tempo fa, i giudici competenti si sono pronunciati sul caso e hanno rilevato che non c’era nulla da giudicare, non essendoci il danno. Intanto, però, il vibrione che da quindici anni infesta la democrazia italiana si era fatto un altro giro. Per non sbagliare la cura occorre fare attenzione alla diagnosi: non è un virus “antipolitico”, ma “antidemocratico”. Attacca la democrazia, lo stato di diritto e le garanzie costituzionali che riguardano tutti i cittadini, non la politica.
Sulla prima pagina della Stampa di giovedì scorso campeggiava la foto di un ragazzo che fino a oggi nessun tribunale ha giudicato colpevole di alcunché. Titolo: “Foto hard nel pc di Alberto”. In Italia funziona così: potrai essere giudicato colpevole o innocente in processo, posto che ci arrivi, ma nel frattempo tutto quello che dirai per difenderti potrà essere usato contro di te per sputtanarti. E pensare, poi, che l’articolo parlava di una singola foto, una singola donna, per di più “seminuda”. A quanto pare, il ragazzo era semplicemente collegato al sito internet di uno dei nostri maggiori quotidiani, mai avari di simili immagini.
Sono solo due esempi, tra i molti che si potrebbero fare, dell’Italia ai tempi del colera. Nel frattempo, Silvio Berlusconi si lamenta delle intercettazioni che lo riguardano e ricorda in modo molto approssimativo, per usare un eufemismo, il comportamento tenuto dal centrodestra ai tempi delle intercettazioni Unipol. Nessuno, però, ricorda attrici e vallette finite su tutti i giornali per le inchieste di un celebre pm di Potenza – ne omettiamo volutamente il nome – dipinte come prostitute, con le loro private telefonate e i loro interrogatori sistematicamente pubblicati, accanto ai loro nomi, alle loro foto e alla loro intera biografia, senza che avessero fatto nulla, né commesso alcun reato. Per una o due che hanno saputo cavalcare l’onda di questa inaspettata pubblicità e hanno saputo giovarsene – come ricordano sempre, con suprema improntitudine, i nostri autonominati guardiani della pubblica morale – quante sono rimaste sommerse dalle calunnie, sotto le pietre di una simile lapidazione morale? Non importa a nessuno.
Eppure lì, sotto quel cumulo di pietre, si nasconde non solo un’elementare questione di diritti e di libertà che riguarda tutti i cittadini, ma anche un’enorme questione democratica. Non è un caso, infatti, che il virus torni a colpire in questi giorni. Il tentativo di chiudere la Seconda Repubblica fondata sulla guerra civile permanente, da parte di Walter Veltroni e Silvio Berlusconi, non poteva non sollevare potenti reazioni di difesa. Ma le forze politiche, tutte le forze politiche presenti in parlamento, pagano anche la propria pavidità. Nel tentativo maldestro di utilizzare l’uno le difficoltà dell’altro, tanti leader politici sembrano incapaci di comprendere come, così facendo, stiano scavando la fossa comune in cui saranno cacciati tutti. Dovrebbero lasciare le inchieste ai magistrati e gli eventuali errori dei singoli magistrati agli organi competenti, ma dovrebbero anche occuparsi – eccome – dei problemi della giustizia, a cominciare dal problema dei problemi: il corto circuito tra sistema dell’informazione e magistratura, specchio dell’onnipotenza della finanza in Italia, che controlla l’uno e così può orientare l’altra. Il grande partito della destabilizzazione permanente che dal 1992 opera indisturbato. Eppure, sabato scorso, Alessandro Profumo ha confermato alla Stampa l’intenzione di uscire dalla Rcs che edita il Corriere della sera, perché convinto – e non è nemmeno la prima volta che lo dice – che le banche dovrebbero uscire dai giornali. Peccato che nessuno, tra i tanti appassionati al tema della libertà di stampa, abbia avuto nemmeno il coraggio di dirgli bravo. E si tratta del primo banchiere italiano.
Se le forze politiche decidessero di affrontare seriamente il corto circuito tra sistema dell’informazione e magistratura, ovviamente, si tirerebbero addosso l’accusa di volere tappare la bocca ai giornalisti e legare le mani ai magistrati, siglando un inconfessabile patto tra due diavoli (il diavolo berlusconiano e il diavolo riformista, ieri dalemiano e oggi veltroniano, comunque sempre pronto a tradire). Ma è l’accusa con cui Veltroni e Berlusconi devono già fare i conti, proprio in questi giorni, per un banale quanto incerto tentativo di correggere l’attuale legge elettorale. E dunque.