In Italia abbiamo da trent’anni una legge, la numero 194 del 1978, che non è graziosamente piovuta dal cielo ma è stata conquistata con qualche fatica, e il cui impianto non potrebbe reggersi senza un qualche riconoscimento del diritto di autodeterminazione della donna. La legge regola infatti l’interruzione volontaria di gravidanza, sul presupposto (storicamente non ovvio né scontato, e anch’esso frutto di conquista) che alla donna non possa essere imposto a qualunque condizione di arrivare sino alle doglie del parto. Se la legge non formula una simile imposizione è perché, pur riconoscendo come fondamentale l’interesse del nascituro, pur preoccupandosi delle possibilità di vita del feto, non ritiene che tali preoccupazioni e interessi possano essere assolutamente anteposti al diritto della donna di tutelare anzitutto la sua propria salute, fisica e psichica. Qualcuno ha scritto che la legge è in questo modo felicemente ipocrita, perché usa lo schermo della protezione della salute della donna per consentire l’esercizio di una scelta personale e insindacabile. Ma se pure fosse così, bisogna convenire che neanche uno straccio di ipocrisia sarebbe possibile, e di sicuro non sarebbe necessario, se si rifiutasse alla gestante di avere voce in capitolo sull’eventuale interruzione della gravidanza. Se si negasse puramente e semplicemente il diritto di autodeterminazione della donna, affermando al contempo che il concepito ha un diritto assoluto, fondamentale e inalienabile alla vita, sarebbe impossibile mantenere in vigore la legge 194: non nel suo attuale impianto, dico, non nelle sue specifiche modalità, ma in principio. Quanto alle modalità, nell’articolato della 194 è per esempio già ben chiaro il discrimine rappresentato dal sussistere di possibilità di vita autonoma del feto. Il fatto che la medicina prenatale lo abbia spostato intorno alla ventiduesima settimana può richiedere al più nuovi indirizzi attuativi, come ha ricordato quest’estate il ministro Turco, non certo suggerire modifiche alla legge. Lo stesso dicasi per quel che la legge prevede nei termini di un aiuto a rimuovere le cause che porterebbero la donna ad abortire: la legge non è affatto insufficiente su questo punto, benché possa esserlo stata la sua attuazione. Ma la discussione di questi e di altri consimili punti non ha alcun senso, quando si sostenga che il diritto di autodeterminazione della donna è “abusivo”, o quando si sostenga che è “inventato” il soggetto femminile che godrebbe di questo diritto.
Ora, a trent’anni dalla legge numero 194 del 1978, qualcuno il quale sostenga qualcosa del genere c’è. Ed è l’autore della proposta di moratoria sull’aborto, Giuliano Ferrara, che ha fatto di nuovo esplodere la discussione sui giornali. Siccome non si capiva bene cosa si volesse dire con la richiesta di una moratoria, e precisamente chi dovrebbe sospendere cosa, il direttore del Foglio ha pensato bene di specificare sabato scorso i termini del suo appello, per dimostrarne la concreta fattibilità. Concretezza e fattibilità non gli hanno impedito di corredare il tutto con un’ampia cornice teorica, poiché se c’è un punto sul quale nel suo vigoroso Kulturkampf il direttore del Foglio non recede, è quello che concerne le premesse filosofiche delle sue proposte. Le quali sono sempre, a suo dire, laiche, reali, naturali, razionali. Orbene, la proposta fattibile e concreta è quella di correggere la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, specificando che il diritto alla vita va garantito a ogni uomo “dal concepimento fino alla morte naturale”, e la cornice, quella dice chiaro e tondo che alla gestante può al massimo essere riconosciuto un “diritto di autodifesa”, privato però “dell’abusivo carattere di diritto all’autodeterminazione, come potere nichilista e autolesionista del soggetto femminile inventato dall’ideologia, e inesistente nella vita umana”.
Capiamo bene che cosa significano queste parole: a partire dal concepimento, la donna perde (se mai lo ha avuto: forse un giorno Ferrara si spingerà a dubitare persino di questo) il diritto di decidere cosa può avvenire del suo corpo. A partire dal concepimento, la donna si trova nelle stesse condizioni in cui ci troveremmo noi tutti, se un giorno cadessimo addormentati, e durante il sonno qualcuno della società dei musicofili collegasse tramite un intervento chirurgico i nostri reni al sistema circolatorio di un famoso violinista affetto da grave insufficienza renale, che potesse rimanere in vita solo grazie alla preziosa opera dei nostri reni. Al risveglio, secondo Ferrara, noi non avremmo diritto di disporre del nostro corpo, e dunque non potremmo legittimamente chiedere di staccarci dall’illustre ma indesiderato violinista, perché per proteggere i nostri reni o anche solo alzarci dal letto nel quale l’intervento ci ha costretti lederemmo il suo fondamentale diritto alla vita.
L’esempio del famoso violinista non è mio, ma di Judith Jarvis Thomson, filosofa americana, ed è tratto dal saggio forse più famoso scritto in difesa dell’aborto, apparso nell’ormai lontano 1971. Era la Thomson a scrivere: “Il fatto che per mantenersi in vita quel violinista abbia bisogno dell’uso continuo dei vostri reni non prova che egli abbia diritto all’uso continuo dei vostri reni”. Ma non aveva fatto i conti con Ferrara, il quale, trovando che è abusivo e inventato il diritto di autodeterminazione della donna, può ben replicare che il violinista ha tutto il diritto, perché siete voi, è la donna – fuor di metafora – a non avere il diritto di decidere cosa fare dei propri reni, se solo il nascituro ne ha bisogno.
Però Ferrara ha detto che non vuole toccare la 194. Staremo a vedere. Una cosa è certa: che prendendo di mira la cultura atea, materialista, individualista, edonista, relativista e nichilista del nostro tempo, e chi più ne ha più ne metta, la sua proposta di moratoria prende palesemente il senso di una grandiosa, non si sa quanto lunga, moratoria della modernità. In nome della ragione laica, beninteso.