Da un po’ di tempo, già prima delle recenti prese di posizione di Dario Franceschini e Walter Veltroni sulla riforma elettorale, c’è qualcosa che suona poco convincente nel modo in cui esponenti politici e politologi vicini al segretario del Pd declinano il tema della vocazione maggioritaria del nuovo partito. Si tratta di un punto delicato, sul quale all’inizio della fase costituente è sembrato esserci un consenso generalizzato, ma che con il passare dei mesi sempre più si presta a interpretazioni diverse.
La vocazione maggioritaria può essere intesa come l’obiettivo di costruire un partito che, sulla base di un rinnovamento della sua piattaforma programmatica e culturale e di una struttura organizzativa più adeguata ai caratteri della società italiana contemporanea, possa raggiungere la dimensione e il radicamento dei partiti di centrosinistra degli altri paesi europei. A eccezione del caso del tutto peculiare della Gran Bretagna, nessuno di questi partiti governa senza alleati. La vocazione maggioritaria di questi partiti non consiste nel fatto che essi coprono con la loro proposta politica l’intero arco del centrosinistra. Sono partiti grandi e strutturati, con un riconoscibile profilo politico e ideale, in grado di rappresentare un terzo e anche oltre dell’elettorato dei rispettivi paesi, ma con una consapevolezza chiara della propria identità e dei propri confini. Stringono alleanze a cui sono in grado di imprimere una leadership autorevole sulla base della propria forza elettorale e della credibilità del proprio programma. È quello che accade anche in Germania, dove dal dopoguerra a oggi la grande coalizione è l’eccezione di brevi periodi, non certo la regola imposta dal sistema elettorale.
Ma la polemica contro il sistema tedesco ha reso chiaro che vi è in realtà un altro modo di intendere la vocazione maggioritaria. Un modo che, più che alla politica europea, sembra guardare agli Stati Uniti. Ne deriva l’idea di un partito del tutto diverso dai modelli presenti in Europa, un partito inteso come movimento di opinione, come contenitore omnibus di quasi tutto ciò che si muove nel campo progressista, in grado di assecondare un tendenziale passaggio dal bipolarismo a un bipartitismo di stampo anglosassone. Un partito leggero, naturalmente, che si lasci alle spalle residui del Novecento come gli iscritti, i congressi, le sedi, gli organismi dirigenti in cui si discute. Un partito che (come i partiti americani e come prevede la prima bozza di statuto presentata dal professor Vassallo) sia chiamato ogni quattro anni a scegliere con le primarie il proprio leader e che, per il resto, mantenga una forma sufficientemente indeterminata e “liquida”, in modo da non rappresentare con la sua identità, il suo apparato, le sue discussioni e i suoi riti congressuali una zavorra per la proposta politica del leader e da non impedirgli che questa proposta parli direttamente alla maggioranza degli italiani.
Si potrà obiettare che questa è una rappresentazione forzata e caricaturale della discussione in corso sulla forma-partito. Certo non è meno caricaturale la rappresentazione che si legge su tanta parte della stampa italiana del confronto in atto nella commissione statuto del Pd come uno scontro tra innovatori e restauratori, tra chi difenderebbe il popolo delle primarie e chi i signori delle tessere.
Il punto centrale è comunque un altro: riusciamo a comprendere meglio l’ambiguità che si cela dietro il tema della vocazione maggioritaria del Pd se incrociamo la discussione che si è aperta sulla riforma elettorale con quella in corso sulle forma e sulle regole del nuovo partito. Si dice spesso (e a ragione) che non ha senso discutere separatamente di sistema elettorale e di regole istituzionali. Bisogna aggiungere che non ha senso neppure immaginare una legge elettorale a prescindere dall’organizzazione e dall’articolazione del sistema dei partiti.
È una lezione che ci viene proprio dall’esperienza italiana dell’ultimo quindicennio. Abbiamo sperimentato i limiti di un riformismo elettorale e istituzionale che talora ha preteso non di accompagnare e di indirizzare i processi di trasformazione del sistema partitico, ma di imporli per legge. Oggi siamo in una situazione diversa, in cui vi sono condizioni nuove e decisive rispetto a un passato anche recente: la convinzione ormai generale sulla serietà della crisi del nostro sistema democratico (al di là delle difficoltà politiche contingenti delle maggioranze di governo che si sono alternate), la nascita del Partito democratico, i conseguenti processi politici di riorganizzazione e di aggregazione che si sono aperti sia nel centrosinistra che nel centrodestra. Sono tutti fattori di grande importanza, che ieri non c’erano e che oggi invece rendono insieme possibile e necessaria una ragionevole riforma elettorale e istituzionale.
Attualmente il modello elettorale e istituzionale tedesco è quello su cui è possibile raccogliere il consenso più ampio non perché la maggioranza dei partiti abbia nostalgia della Prima Repubblica o aspiri alla grande coalizione, ma per ragioni politiche strutturali. La plausibilità di un’intesa su questo modello dipende cioè dal fatto che esso è quello che meglio si adatta ai processi politici realisticamente possibili (alcuni già in atto), non a quelli vagheggiati o ideali, di razionalizzazione e semplificazione del quadro politico. E il compito di una grande forza politica nazionale dovrebbe essere quello di favorire la riforma migliore tra quelle possibili, non di inseguire la formula ideale che di fatto preclude qualsiasi intesa e mantiene lo status quo.
L’idea che il Pd debba fare della difesa del suo modello elettorale ideale la sua priorità ha portato in questi giorni ad alcune prese di posizione sorprendenti. È emerso anche quello che credo sia, non solo in Italia, un inedito assoluto in materia di regole istituzionali: la teoria delle due fasi, ovvero la proposta di una riforma delle legge elettorale e costituzionale a tempo. Oggi non c’è il consenso necessario per il nostro modello ideale, allora approviamo subito una prima riforma, ma diciamo sia alle altre forze politiche – che dovrebbero comunque votarla – sia ai cittadini che noi la consideriamo provvisoria, perché nella prossima legislatura ci proponiamo di ricominciare tutto daccapo. Come dire: noi siamo fin dal 1997 per il sistema francese, la coerenza ha il suo prezzo, pazienza se la transizione italiana dura ancora un po’ e se continuiamo a cambiare sistema elettorale a ogni legislatura.
Il rifiuto del modello tedesco si basa poi su altri due assiomi (e per gli assiomi, si sa, non c’è bisogno di dimostrazione). In primo luogo, il proporzionale con soglia sbarramento al 5 per cento non sarebbe sufficiente per eliminare il rischio di una forza di centro, collocata tra il Pd e Forza Italia, che potrebbe diventare l’ago della bilancia permanente e, quindi, aumentare progressivamente la propria forza sfruttando la rendita di posizione. Per la verità, una tale collocazione intermedia tra le due forze principali è rivestita in Germania dai liberali e non risulta che abbia innescato la dinamica che si prevede si verificherebbe con ferrea necessità in Italia. Ma, oltre a questo, anche a voler ragionare in termini di convenienza, siamo davvero convinti che al Pd convenga eliminare, tramite legge elettorale, una forza intermedia di riferimento per un certo elettorato moderato e cattolico? Che cosa ci induce a ritenere che quell’elettorato, costretto a scegliere, si orienterebbe verso il Pd più che verso Forza Italia? Da questo punto di vista, la convenienza di Berlusconi appare molto più chiara e fondata di quella di Veltroni.
In secondo luogo, si sostiene che il sistema tedesco ci porterebbe diritti alla grande coalizione. L’argomento (che, peraltro, come detto, è manifestamente infondato anzitutto rispetto alla storia politica tedesca del dopoguerra) sembra prestarsi a una lettura “subliminale”, ossia serve a dire agli elettori: guardate che non siamo noi, ma quelli che nel Pd avversano il nostro disegno a essere sospettabili di intelligenza con il nemico. Per rafforzare l’argomento, Veltroni si è cimentato anche in una proiezione sui dati elettorali in caso di approvazione del sistema tedesco, chiedendosi quali coalizioni si potrebbero costruire se alle prossime elezioni il PD ottenesse il 32 per cento e la sinistra radicale il 9. È stato giustamente osservato che con questi dati elettorali, sistema tedesco o meno, non avremmo né problemi di governabilità del centrosinistra, né la grande coalizione, ma semplicemente la vittoria del centrodestra. È peraltro difficile interpretare la vocazione maggioritaria in termini di autosufficienza con meno di un terzo dei voti, quale che sia la legge elettorale adottata. Sempre che non si pensi di poterne approvare una che risolva d’incanto tutti i problemi politici e istituzionali stabilendo che il vincitore delle primarie del Pd diventi automaticamente presidente del Consiglio.