Se vai a un party, a New York oppure a Los Angeles, trovi ben pochi disposti a rilasciare commenti salaci e politicamente scorretti sul colore della pelle di Obama o sul fatto che Hillary è una donna. È molto più facile, invece, che trovi qualcuno pronto a prendersi gioco della fede religiosa del miliardario americano Mitt Romney, mormone, candidato con i repubblicani. E tra i primi a farlo è stato in verità un suo collega di partito, Mike Huckabee, che è un ex pastore battista, e che in dicembre si è chiesto pubblicamente, inorridendo, se i mormoni non siano quelli che credono che Gesù e il diavolo siano fratelli.
A Nicholas Kristof, columnist del New York Times, cui si deve la considerazione sui cocktail party sopra riportata (“Evangelicals a Liberal Can Love”, 3 febbraio), si potrebbe replicare che forse il problema sta solo nel modo in cui si organizzano le festicciole nella Grande Mela o sulle coste del Pacifico. Ad altre longitudini, infatti, le discriminazioni nei luoghi di lavoro o di socializzazione si fanno ancora sentire: tanto per le donne quanto per gli extracomunitari di pelle scura.
Ma Kristof, naturalmente, ha ragione: prendersi gioco di qualcuno per la sua fede religiosa è semplicemente ripugnante. Poiché però il senso complessivo del suo intervento sembra consistere nella critica a un certo atteggiamento liberal, per il quale la fede religiosa sarebbe di per sé priva di dignità intellettuale, è a questo punto della discussione che mi atterrò, lasciando perdere le altre pur interessanti considerazioni che Kristof svolge a proposito dei nuovi orientamenti “sociali”, cioè caritatevoli e solidaristici, della comunità evangelica negli Usa, o della presenza di ispirazione religiosa nelle parole dei candidati alla Casa Bianca. Il supermartedì ci dirà poi se sarà il pragmatismo di Hillary Clinton a spuntarla o piuttosto l’afflato di Obama. E se sul fronte repubblicano prevarrà la sobria determinazione di McCain o il Dio degli eserciti di Romney.
Veniamo, però, al punto. Riconosciuta la distinzione fra il robust criticism e lo scorn, e scartato con Kristof quest’ultimo, è il caso di domandarsi se davvero la fede religiosa sia ancora oggi preparata a esporsi a una critica rigorosa, o se non abbia preso a stufarsi, soprattutto dalle nostre parti. Eppure quella della critica è, per dir così, la condizione ordinaria di ammissibilità entro lo spazio pubblico, alla quale in democrazia occorre sottostare, se è appunto nello spazio pubblico che si vogliono far valere le proprie ragioni (per giunta, con qualche insistenza in più, almeno rispetto al recente passato). Ben più di due secoli fa, la rivoluzione francese non c’era ancora stata, ma già Kant affermava di vivere nell’epoca della critica “cui tutto deve sottomettersi”. E poi aggiungeva: “La religione mediante la sua santità e la legislazione mediante la sua maestà vogliono di solito sottrarsi alla critica. Ma in tal caso esse suscitano contro di sé un giusto sospetto”.
La cosa che colpisce, delle celebri parole di Kant, è l’indicazione del clima. Anche a noi pare ovvio che nulla può esentarsi dall’esame libero e pubblico della ragione, ma, essendo forse cambiato il clima, sembra a volte che susciti un giusto sospetto non chi chiede di essere esentato da una critica reputata irriguardosa, ma chi si permette di criticare la religione. Non chi pretende un “rispetto senza finzione” ancor prima di essersi sottoposto al vaglio della critica, ma chi quel rispetto proprio perciò nega.
Le parole di Kristof procurano poi una falsissima impressione. Precisamente la seguente: che sia parimenti riprovevole, sul piano morale, chi giudichi un uomo in base al colore della pelle, o chi giudichi un uomo in base alle sue opinioni (di fede o d’altra natura che siano). E invece, fermo restando il diritto di ciascuno di avere le opinioni che crede, la cosa non può stare così. Non può starvi, almeno per quanti (e di solito i credenti sono fra questi) ritengono che non sia affatto opinabile che gli uomini sono tutti uguali. Le opinioni di fede, invece, sono per lor natura, proprio in quanto opinioni, sindacabilissime (e quindi, nel merito, necessariamente diseguali). La fede – mi attengo ancora a Kant – è precisamente una forma presuntiva del tener per vero, certo superiore soggettivamente al mero opinare, ma inferiore oggettivamente al sapere. Questa distinzione kantiana può a sua volta riuscire opinabile, ma, fatta salva la forma in cui ciascuno vive la propria vita di fede, è difficile che nello spazio pubblico il credente possa esibire altri titoli di credito, oltre alla mera convinzione soggettiva di cui s’è detto: più forte di una mera congettura, la fede resta comunque oggettivamente insufficiente. Ecco perché è esposta in linea di principio alla valutazione che può spettare a opinioni infondate ed erronee, a differenza del giudizio sull’uguaglianza di tutti gli uomini, sul quale c’è da augurarsi si discuta meno o non si discuta affatto. Da queste parti e anche nei cocktail party di New York o di Los Angeles.
Che se poi, tra un drink e l’altro, in attesa dei delegati di Romney, Mc Cain o Huckabee, o di Obama e Hillary, i liberal impuniti d’Oltreoceano continueranno mollemente a satireggiare certe credenze, con l’aria di chi pensa di saperla più lunga, si potrà sempre ricordare a un Kristof indignato il pensiero di un grande cristiano, Blaise Pascal. Il quale sopportava tanto poco i libertini, quanto poco Kristof tollera gli spiriti laici della West e della East Coast, ma sapeva pur riconoscere che è tirannia “voler avere per una strada ciò che si può ottenere solo per un’altra”. E cioè: “Si praticano diversi doveri in rapporto a diversi meriti”. Se dunque uno ha meriti umanitari, o se ha i numeri dalla sua parte, o se è degno d’amore, avrà l’amore, avrà l’obbedienza, avrà il rispetto che si deve alla sua forza o alla sua umanità. Ma, con buona pace di Kristof, solo se ha meriti intellettuali riceverà rispetto intellettuale, difficilmente per altre ragioni.