E’ sicuro che gli storici di domani faranno non poca fatica a capire. E certo non li aiuterà a orientarsi leggere quel che scriveva il loro più illustre predecessore, Paolo Mieli, agli inizi del 2008. “Qui in Italia non è mai accaduto – si legge infatti nel suo editoriale dell’8 febbraio – che il principale partito della sinistra si mettesse nelle condizioni di candidarsi davvero a governare, con un programma coerente di riforme coraggiose sì ma compatibili, al riparo da veti e intrusioni da parte di entità politiche collocate su posizioni estreme”. E più avanti, dopo una breve digressione sulla sinistra storica di Depretis e sul governo di Lloyd George, passando per Crispi, Bonomi, Jules Guesde e Garibaldi, la sentenza che non ammette repliche, perché emessa dal tribunale della storia: “L’Ulivo non si è mai candidato a governare libero da ipoteche di sinistra”. Cosa che accade solo oggi, finalmente, “per la prima volta dopo centoquarantasette anni”. La novità sarebbe dunque la rottura tra l’Ulivo e la sinistra radicale. E cioè esattamente quello che è accaduto nel 2001, quando il principale partito della sinistra erano i Ds, guidati allora proprio da Walter Veltroni, che si candidarono a governare sotto il simbolo dell’Ulivo, senza Rifondazione comunista (e a essere pignoli, allora, senza neanche Antonio Di Pietro).
Dopo la rottura del 1998, quando Fausto Bertinotti aveva fatto cadere il primo governo Prodi, e dopo la serie di governi D’Alema e Amato, il gruppo dirigente dell’Ulivo ritenne infatti che occorresse una radicale discontinuità. Decise così di presentarsi con un nuovo candidato premier (Francesco Rutelli), senza alleanze eterogenee (di qui la rottura non solo con Rifondazione, ma anche con Di Pietro) e di correre da solo alle elezioni. Perse le elezioni e dal giorno dopo la “società civile”, ampiamente aizzata dai grandi giornali, si rivoltò contro quei dirigenti con i quali, si gridava nelle piazze, “non vinceremo mai”. Il celebre monologo di Nanni Moretti, non per nulla, cominciava più o meno così: “Io non ci riesco a parlare con Bertinotti, è più forte di me, ma io non faccio mica il politico, non ero io che dovevo parlare con Bertinotti…”. Tralasciamo il curioso paradosso per cui un simile sdegno non si rivolse contro chi aveva compiuto quella scelta, ma contro chi quel disastro aveva ereditato (Piero Fassino). E tralasciamo pure l’elenco dei tanti che avevano condiviso quella scelta allora e che la sostengono oggi nel Pd, e che tuttavia quel comizietto di Nanni Moretti applaudirono fino a spellarsi le mani, a Piazza Navona, in una nottata destinata purtroppo a durare molto a lungo. Tralasciamo tutto questo e torniamo a Mieli, perché quello del 2001 non è certo l’unico precedente, nei centoquarantasette anni di storia unitaria dello stato italiano, che smentisca la sua tesi. Cos’era infatti il governo D’Alema, se non il tentativo di portare la sinistra al governo libera dalle ipoteche del bertinottismo? Si dirà che quel tentativo non passò dalle elezioni. Fatto sta che quel tentativo – sia pure in forme e contenuti completamente diversi – fu fatto ben due volte: al governo senza passare dalle elezioni e alle elezioni senza passare al governo. Ma se è alla sostanza che vogliamo stare, allora è del governo D’Alema che bisogna parlare: Kosovo, privatizzazioni, Telecom. Siccome però su almeno un paio di questi argomenti gli editori del Corriere qualche diretto interesse lo hanno avuto, dubitiamo che dal Corriere potranno mai venire parole diverse da quelle che hanno alimentato tutte le campagne di questi anni, da Mani Pulite alle scalate del 2005. Qui nasce e si alimenta quel sovversivismo che rappresenta la vera ragione della paralisi politico-istituzionale degli ultimi quindici anni, impasto di sinistra intransigente e destra qualunquista perfettamente simboleggiato da Antonio Di Pietro che scrive su Micromega, da Marco Travaglio che scrive sull’Unità, dalla sfilata d’interviste a tutti i relitti di un’altra e non meno plumbea stagione che si affollano periodicamente sulle pagine del Corriere della sera. Con buona pace di Agostino Depretis, di Clement Attlee e pure di Garibaldi, che avranno i loro meriti e le loro colpe, ma con tutto questo non c’entrano proprio nulla.