Negli ultimi giorni tutti i partiti italiani sono stati investiti da un terremoto che ne ha modificato la collocazione e la fisionomia. L’apparentamento con la lista di Antonio Di Pietro e il probabile accordo con i Radicali decisi dal Pd – ma soprattutto la rottura tra Udc e Pdl – hanno cambiato di colpo le carte in tavola. E forse, chissà, cambieranno anche l’esito della partita che si giocherà di qui al 13 aprile. Certo è che la vittoria del Partito democratico, fino a ieri semplicemente impensabile, oggi non è più matematicamente – e forse nemmeno politicamente – impossibile.
Si conferma dunque l’intuizione di chi sosteneva la costruzione del Partito democratico come riforma del sistema politico. E’ stata invece abbandonata l’idea del Partito democratico come riforma del centrosinistra (noi, sia detto tra parentesi, abbiamo sostenuto entrambe le posizioni). Decidendo di presentare il Pd da solo, infatti, Walter Veltroni ha decretato la morte del centrosinistra, peraltro in pieno accordo con Fausto Bertinotti, che non per nulla è stato il primo a dare notizia del decesso, in un’intervista a Repubblica del dicembre scorso.
Si tratta evidentemente di una scorciatoia, ma non è detto che la strada più breve non si riveli anche la migliore. Il primo dovere di un leader politico è non portare le persone, gli interessi e le idee che rappresenta alla disfatta. Se la coalizione tra Partito democratico e Italia dei Valori riuscirà a ottenere anche un solo voto in più del Pdl, nessuno potrà più ragionevolmente contestare le scelte compiute da Veltroni in campagna elettorale, a cominciare dalla scelta di abbandonare la coalizione di centrosinistra. Non avrebbe più senso, in tal caso, accusarlo di avere voluto la caduta del governo Prodi, facendo saltare il centrosinistra d’intesa con Bertinotti e aprendo così la strada alla crisi provocata da Clemente Mastella alla prima occasione utile. E questo, sia chiaro, nulla toglie alla gravità dell’occasione, come gli sviluppi successivi dell’inchiesta che ha coinvolto Mastella e sua moglie hanno dimostrato. E come ci piacerebbe che il Pd ripetesse in campagna elettorale, ma è evidente che l’alleanza con Di Pietro non lo consentirà. Se però Veltroni riuscirà a vincere, si potrà sempre osservare che la scelta di allearsi con l’Italia dei Valori è stata in fondo un prezzo modesto da pagare, per non riconsegnare l’Italia al centrodestra. E lo stesso si potrà dire della scelta di far saltare, in asse con Silvio Berlusconi, l’unica riforma della legge elettorale allora possibile (il sistema tedesco), che non solo avrebbe garantito al governo Prodi lunghi mesi di relativa stabilità, ma avrebbe anche permesso di riaprire la partita, spezzando in parlamento, prima che alle elezioni, l’unità del centrodestra.
Giunti a questo punto, c’è poco da discutere. E se Veltroni riuscirà davvero a vincere elezioni che tutti davano per perse in partenza, ci sarà poco da recriminare. Ma se questo non gli riuscirà, è evidente che quello che seguirà non somiglierà nemmeno un po’ ai diversi governi Berlusconi che abbiamo conosciuto, dopo la rottura tra Udc e Pdl. Se otterrà la maggioranza alla Camera e al Senato, ben poco avrà da mediare, e nulla di cui preoccuparsi, il nuovo presidente del Consiglio. In parlamento, infatti, il Partito democratico sarebbe in tal caso solo un pezzo, numericamente consistente ma politicamente marginale, in un’opposizione che vedrebbe alla sua sinistra la Cosa rossa e alla sua destra la Cosa bianca (o come si chiamerà la possibile alleanza, in un’unica lista, tra Udc, Udeur e Rosa bianca).
Veltroni ha scelto dunque di giocare d’azzardo. Se vincerà, sarà il suo trionfo. Se perderà, sarà una disfatta senza precedenti per tutta la sinistra italiana, tale da fare impallidire tutte le precedenti sconfitte della sua storia, che pure ne è ricca. La campagna elettorale è cominciata. Rien ne va plus.