Sempre più spesso ritorna nel dibattito pubblico una domanda scabrosa: è lecito – e politicamente produttivo – parlare con l’Islam politico radicale? Domanda politicamente scabrosa proprio perché si pone, dopo l’11 settembre, in termini sempre più manichei. Dunque in un contesto che non può non esasperare la suscettibilità di chi si trova in prima linea, a cominciare da Israele. Il nodo politico che in Medio Oriente si è così aggrovigliato, però, resta intatto di fronte a noi: l’Islam radicale raccoglie vasti consensi in quella regione, anche dalle urne, come nel caso di Hizballah e di Hamas. E purtroppo, con il passare del tempo, quel nodo si fa sempre più stretto: si stringe nel Libano, ancora pericolosamente in stallo sulla scelta di un nuovo presidente della Repubblica, e si stringe tra i palestinesi, divisi geograficamente e politicamente in due entità sempre più distanti l’una dall’altra, con il rischio che questa divaricazione crei un vuoto tanto grande da farci cadere dentro ogni speranza di pace.
La gravità del problema emerge chiaramente dalle parole di molti esponenti americani e israeliani, come pure dal comportamento del governo di Tel Aviv, che negli ultimi mesi ha portato avanti un confronto con Hamas e la sua ala “dell’interno” tanto indiretto quanto proficuo.
Oggi, dunque, anche Israele s’interroga senza facili schematismi sul problema dei rapporti con l’Islam politico radicale. Questione che diviene tanto più urgente quanto più il processo di Annapolis mostra la corda, sebbene le attuali difficoltà, dovute alla recrudescenza dello scontro armato con le milizie islamiche, potrebbero preludere a una prossima distensione di cui si sta forse contrattando ampiezza e profondità, secondo il classico schema della misurazione preventiva dei rapporti di forza. Per Israele, però, si pone innanzi tutto il problema di capire quale popolo palestinese abbia di fronte.
Lo stato ebraico si trova dinanzi a una guerriglia asimmetrica – quella dei razzi Qassam – che assomiglia più a quella di “attrito” prima della guerra del Kippur che non a quella che precedette la guerra dei sei giorni. Questo perché la minaccia rappresentata da Hamas non è tale da permettere il pieno dispiegamento della forza militare di Israele, ma è sufficiente a destabilizzare il quadro politico. E’ una ferita aperta, continuamente sanguinante. E una medicina militare non esiste. Senza dimenticare che soldati israeliani sono in mani nemiche da più di un anno, a cominciare dal Caporale Shalit.
Ma se questo è il contesto, la domanda allora non è se aprire un confronto con quelle parti dell’Islam politico, come Hamas, dal più forte radicamento popolare – un radicamento che costituisce comunque un fattore politico su cui lavorare, perché un popolo non è mai disponibile a soffrire senza motivo per un tempo indefinito – bensì come aprirlo. Naturalmente, su questo, occorre che la prima parola sia detta da chi sta in prima linea. Ma certo non può rimanere l’ultima. Occorre insomma una proposta politica condivisa da tutti – in primo luogo da Israele – capace di interagire con quella realtà complessa e frammentata che è oggi la società palestinese, per provare a dividere l’Islam politico radicale. Perché esistono naturalmente sfumature e diversità di vedute – dunque potenziali contraddizioni – in un corpo politico che conta migliaia di quadri e che vive alla luce del sole. Contraddizioni che bisognerebbe capitalizzare. Si guardi ai recenti fallimenti delle manifestazioni organizzate da Hamas nella Striscia di Gaza. Lo status quo, ormai, non va bene né a Israele né ai palestinesi. E oggi anche Hamas – che sullo status quo ha prosperato – si accorge di quanto possa costare, politicamente, non avere una subordinata. Da questo solo spiraglio occorre dunque ripartire, con l’aiuto della comunità internazionale, con testardaggine e fiducia.