All’inizio di febbraio era difficile trovare qualcuno, sia tra gli osservatori sia tra i militanti del Partito democratico, disposto a credere davvero che la partita elettorale con il centrodestra potesse essere riaperta, soprattutto dinanzi alla scelta di rompere l’alleanza con la sinistra radicale. Il coraggio dimostrato con quella scelta e il grande slancio con cui il Pd ha avviato la campagna elettorale hanno invece determinato una situazione nuova, in cui Berlusconi, per la prima volta dopo quindici anni, ha dovuto inseguire la trasformazione del quadro e del clima politico nel paese, anziché esserne il principale artefice.
Inoltre, com’era prevedibile, la scelta del Pd sulle alleanze “non omogenee” ha prodotto un effetto di sistema sull’intero quadro politico. E’ verosimile, infatti, che dalle urne esca una rappresentanza parlamentare semplificata in quattro grandi aree politico-culturali (Pdl-Lega Nord, Udc, Pd, Sinistra Arcobaleno), realizzando così quella riforma del sistema politico che per anni si è invano cercato di ottenere tramite progetti di riforma elettorale. Questa semplificazione, peraltro, rende più credibile la prospettiva di una legislatura finalmente in grado di portare a termine un progetto coerente di riforma istituzionale ed elettorale.
A poco più di due settimane dal voto, però, resta il fatto che la coalizione di centrodestra conserva, secondo quasi tutte le rilevazioni, un vantaggio significativo. Veltroni sembra adesso essersi convinto che sia irrealistico pensare di proseguire e accelerare la rimonta, in un periodo così breve, senza passare all’attacco. Si può comprendere la scelta di non riprodurre dall’inizio della campagna tutto il tradizionale bagaglio dell’antiberlusconismo. Ora, però, in una situazione in cui Berlusconi rimane il favorito, non avrebbe senso affrontare la fase cruciale della campagna elettorale senza chiedere agli italiani (e, in particolare, alla quota non piccola di elettori tuttora indecisi) di pronunciarsi anzitutto sull’attitudine a governare il paese da parte di chi ha già avuto cinque anni ininterrotti e la più larga maggioranza parlamentare della storia repubblicana per dare prova di sé, con i risultati che conosciamo.
All’intensificarsi della polemica diretta a colpire la credibilità di Berlusconi come uomo di governo deve però accompagnarsi una capacità di proposta più incisiva di quella che il Pd è riuscito a esprimere finora. Il programma è certo infinitamente più breve e credibile di quello del centrosinistra del 2006. Sarà cresciuto il numero di coloro che l’avranno letto, ma nessuno può pensare che ciò basti a spostare più di un milione di voti dal centrodestra al centrosinistra nelle ultime due settimane (in base ai dati dei sondaggi, la rimonta richiederebbe questo). Si aggiunga l’innegabile difficoltà che la vicenda Alitalia sta creando al Pd, specie al Nord.
Negli ultimi giorni Veltroni ha tentato di rilanciare con alcune proposte dal forte impatto mediatico, come la riduzione dello stipendio dei parlamentari e l’aumento delle pensioni minime. Chi potrebbe non essere d’accordo? Nessuno. Al punto che su questi temi non si è riusciti ad aprire alcun vero dibattito. È la conferma che ormai questo genere di misure, in un’opinione pubblica disincantata, possono produrre un effetto quando le si riesca a realizzare, non certo al momento dell’annuncio.
Si può invece fare uno sforzo ulteriore per individuare alcuni temi cruciali, sui quali dimostrare che il Pd rappresenta una svolta anche rispetto alle precedenti esperienze di governo del centrosinistra e ha il coraggio di affrontare di petto i ritardi strutturali dell’Italia. Si pensi, ad esempio, al tema della formazione e della ricerca. Tutte le analisi comparative internazionali degli ultimi anni, per quanto riguarda sia la scuola sia l’università, ci dicono che siamo di fronte a una vera e propria emergenza nazionale. Eppure il tema è quasi assente dalla campagna elettorale. Perché non ammettere gli errori compiuti anche dai governi di centrosinistra e, anziché continuare a parlare di attività complementari, di creatività dei ragazzi da stimolare, di teatro, musica e internet, non riconoscere che ormai c’è un problema drammatico che riguarda anzitutto le materie di base, italiano e matematica, un problema che mette a rischio la capacità di tanti giovani di scrivere correttamente, di leggere un testo comprendendone il senso, di compiere le operazioni logiche fondamentali? Altro che le “tre I” di Berlusconi, qui siamo di fronte alla prospettiva di un arretramento spaventoso del livello culturale di base delle nuove generazioni e, conseguentemente, della qualità della vita civile e del potenziale di sviluppo dell’Italia nei prossimi decenni.
Per non farla lunga, accenno soltanto a un altro tema: il ruolo dello Stato centrale nel contesto della competizione economica globale. Il vantaggio di cui tuttora gode la coalizione di centrodestra corrisponde grosso modo alla forza elettorale della Lega Nord, che si conferma così decisiva per l’eventuale vittoria di Berlusconi. Siamo ancora convinti che, per recuperare consensi al Nord e tra i ceti produttivi del paese, si debba inseguire la Lega sul terreno di un federalismo scriteriato, che moltiplica i costi della politica e infligge in diversi settori (infrastrutture, energia, commercio estero, promozione turistica, per citare solo i principali) un danno grave alla competitività economica del paese? Dopo i disastri della riforma costituzionale del Titolo V votata dal centrosinistra nel 2001, siamo ancora convinti che l’Italia possa essere l’unico grande paese europeo che rinuncia a un ruolo incisivo dello Stato centrale a sostegno dei propri interessi nazionali? Lo ha detto finalmente con chiarezza Massimo D’Alema, in una intervista di qualche giorno fa: “Faccio una riflessione autocritica. Per troppi anni siamo stati subalterni all’idea che bisognava scardinare lo Stato centrale, subalterni al federalismo, alla retorica dell’autogoverno alimentata anche dalla stagione dei sindaci, alla filosofia del glocalismo… Non funziona. […] Serve invece un forte e autorevole Stato centrale, cioè quella struttura già nata debole e che da vent’anni lavoriamo a indebolire”. Lo confesso, musica per le orecchie di chi, come me, negli ultimi anni ha provato una tale allergia di fronte all’infatuazione “glocalista” da essere spinto perfino a riscoprire i classici dello statualismo ottocentesco. Ora, al di là delle preferenze culturali di ciascuno di noi, questo tema può parlare anzitutto ai ceti produttivi del Nord, che si confrontano ogni giorno con concorrenti stranieri che hanno alle spalle uno Stato che li sostiene di più costando di meno. Può parlare più della solita litania federalista, più dei discorsi indeterminati sulla riduzione dei costi della politica e forse anche più della provocazione del capolista del Pd in Veneto, Massimo Calearo, che propone di far fallire l’Alitalia.