Scrivo da un paese che, per la prima volta dalla fondazione della Repubblica, non avrà in parlamento né comunisti né socialisti. Questi ultimi c’erano stati ininterrottamente, se si esclude il ventennio fascista, per più di un secolo. Il voto del 2008 ridisegna il paese e ci costringe a dirci un po’ di cose chiare sullo scarto tra l’Italia com’è e l’Italia come ce la raccontiamo.
Indubbiamente, per la sinistra in generale è andata male, sia per quella democratica che per quella arcobalenica. Parto da quest’ultima perché il suo mi sembra il risultato più grave, per tutta la sinistra e per tutto il paese: quattro partiti che in questi ultimi anni hanno oscillato tra il 10 e il 14 per cento hanno preso, riuniti insieme, una media del 3 e rotti, senza salire in nessuna regione sopra il 4. Nei distretti industriali del Nord i dati sono impietosi: Bertinotti all’1,2 e Lega al 45 per cento, e questo dal Piemonte al Veneto, con sfondamenti in Liguria e in Emilia. Gli operai hanno votato la Lega perché questa è un partito vero: fa politica e ha contatti continui col suo popolo, anzi ha fondato un suo popolo, come negli anni Cinquanta e Sessanta fece il Pci. Col suo popolo la Lega parla quotidianamente, nei bar, nei luoghi di lavoro, nelle piazze. Crea un senso comune, un’appartenenza, interpreta i fattori dinamici del Nord come i suoi limiti, e a entrambi offre risposte e rappresentanza politica. Ne conosce i malesseri e li utilizza, populisticamente certo, ma scientemente ed efficacemente. Così interpreta fattori dinamici e malesseri dei piccoli imprenditori, dei professionisti e degli operai del Nord e li “blocca in unità” proponendo soluzioni nazionalistiche e apparentemente “interclassiste”, come la sinistra catalana o basca (che magari ci è più simpatica, ma compie più o meno la stessa operazione politica, impossibile in Spagna alla destra per via dello stato accentratore di Franco). Un’altra parte dei voti si è invece spostata su Di Pietro, traghettata da Grillo, Santoro e Travaglio. Sono voti non più operai ma direi di una “borghesia estremista”, a volte girotondina a volte no global, con una pulsione giustizialista, che pure in questi anni ha votato Rifondazione o Verdi.
Ad accomunare queste due vie di fuga dei voti sta una tendenza non tanto antipolitica quanto antiaristocratica, nel senso di “aristocrazia politica”, che preferisco alla categoria di “casta”. Il tutto testimonia comunque di una volatilità estrema del voto a Rifondazione e compagni, come fosse stato in questi anni in parte un voto d’opinione. Bisognerebbe ragionare sul perché di questa volatilità che fa il paio con la distanza fisica dai propri soggetti sociali di riferimento, confusi con i frequentatori di una sinistra da club, perché il fatto che questi non siano rotariani, ma stiano magari dentro una casa occupata, non basta a garantire una grande vicinanza alle masse. Questa distanza e la mancanza di un programma sostenibile e “di interesse generale” mi sembrano i due deficit dai quali partire. Ma ho l’impressione, e la paura, che i dirigenti della Sinistra Arcobaleno leggeranno questo voto al contrario, attribuendone l’intera responsabilità alla presenza nel governo Prodi e al richiamo al voto utile del Partito democratico, col risultato di ridividersi in piccoli partiti in cerca ognuno di una sua rendita di (op)posizione, identitaria o movimentista che sia. Sono invece convinto che una parte di elettorato li ha puniti non perché sono stati al governo, ma per come sono stati al governo: una continua ricerca di visibilità senza riuscire a portare a casa alcun risultato concreto (penso per esempio a una legge sull’immigrazione).
Quanto al Partito democratico, una certa tendenza al voto utile c’è stata, ma né questa né l’astensionismo possono, da soli, spiegare il crollo della Sinistra Arcobaleno. Per il Partito democratico, però, il paradosso è proprio di avere assunto posizioni moderate senza sfondare nell’elettorato moderato, anzi sottraendo voti alla sua sinistra. Per questo partito non parlerei di distanza fisica, politica e culturale dalla società italiana. E’ anzi un partito popolare e del popolo si fa carico anche nelle sue contraddizioni, come ha fatto per esempio sul tema della sicurezza, anche in modo contraddittorio. Però forse anche il Pd ha confuso le piazze piene con l’Italia intera, cosa che non ha fatto il PESA (principale esponente eccetera) che al contrario sembra avere sempre il polso del paese, nonché l’unico sondaggista affidabile.
Un radicamento potenzialmente forte il Pd lo avrebbe, ma non lo ha attivato né sostenuto. A questo radicamento manca poi quel pride leghista, quell’orgoglio che fa certi delle proprie posizioni e che fonda popoli, comunità e appartenenze. Veltroni ha impostato una nuova narrazione, anche efficace, al fondamento di un senso comune di appartenenza, ma l’impressione è che manchi qualcosa, e che altre cose si facciano mancare appositamente. Il risultato è una certa leggerezza del messaggio (“non ha la forza della fame” avrebbe detto Brecht) che si scontra con le ruvidità leghiste o con il pragmatismo paternalista di Berlusconi. Una leggerezza che si è vista anche nella composizione delle liste, dove spesso, anche qui, non sono state sostenute e potenziate le capacità di radicamento territoriale.
Credo poi che sia giusto accettare le sfide dell’avversario, ma facendolo bisogna stare attenti a comunicare le proprie specificità: al culto della personalità di Berlusconi si sarebbe dovuto sì contrapporre una forte personalità, e in questo Veltroni è stato perfetto, ma anche una squadra dinamica, giovane, esperta (Bonino, Finocchiaro, Chiamparino, Bersani o altri meno noti e più giovani ma con quelle caratteristiche) che desse l’idea completa di quella comunità di rinnovamento che si vuol rappresentare. La sinistra è per tante ragioni altra cosa rispetto alla destra, e una di queste ragioni è la capacità di basarsi su un’intelligenza collettiva.
Il mancato sfondamento nei ceti moderati è anche da attribuirsi alla geniale mossa di Berlusconi di escludere Casini dalla coalizione: non solo si è disfatto di un alleato riottoso, ma ha anche posto un cuscinetto tra lui e Veltroni impedendo che le due coalizioni fossero contigue e si contendessero pezzi di elettorato. Per questo una lezione da trarre è che per intercettare i voti dei cosiddetti ceti moderati non bisogna diventare un partito moderato; piuttosto un partito radicato, di popolo, dinamico, con un’anima e un messaggio forti.
E’ sulla capacità di dare rappresentanza alle nuove dinamiche e alle nuove sofferenze sociali che ci si deve interrogare, magari partendo da quel sondaggio pubblicato da Repubblica in cui si vede come operai, imprenditori e professionisti (cioè i ceti maggiormente produttivi e in buona misura anche quelli maggiormente innovativi vista la qualità della nostra ricerca e della nostra scuola) votino in maniera fortemente preponderante per il centrodestra (potremmo dire per la destra) mentre a sinistra guardino pensionati, studenti universitari e pubblico impiego. Come dire che servirebbe rimettere la realtà con i piedi in basso e la testa in alto.