Nella nuova stagione, nel nuovo bipolarismo, ma soprattutto nel nuovo partito che Walter Veltroni ha guidato alle elezioni del 13 e 14 aprile, a quanto pare, non è previsto il dissenso. Non sono ammesse critiche da parte di eletti, elettori o dirigenti del Pd, che sarebbero un segno di resistenza al cambiamento, manovre di apparato, trame di palazzo. Insomma, un complotto. E non sono ammesse critiche neppure dalla stampa.
“I giornali abbondano di rampogne e di suggerimenti nei suoi confronti – ha provato a dire sabato un giornalista dell’Unità – ad esempio il Riformista…”. La frase è rimasta in sospeso. “Liberiamoci dai condizionamenti dei giornali che vengono letti prevalentemente da quelli che fanno politica – lo ha interrotto Veltroni – il Riformista, peraltro di proprietà di un parlamentare eletto dal Pdl, vende 2000 copie e fa la spiega a noi che abbiamo preso 12 milioni di voti. Mi verrebbe da dire: per prima cosa pensa a vendere di più tu”.
Il lettore dell’Unità non saprà mai di quali “rampogne” e di quali “suggerimenti” parlasse il giornalista, né cosa avesse da dire il Riformista al segretario del Pd. Chiarito che il quotidiano diretto da Antonio Polito non ha titolo per parlare, infatti, l’intervista passa serenamente oltre. L’evocazione del Riformista serve soltanto ad ammonire i lettori dell’Unità a non giocare con quei bambini, a non parlarci, ma soprattutto a non ascoltarli. Fa parecchio freddo, in questa nuova stagione. E’ bene rientrare in casa presto, senza fermarsi a parlare con gli sconosciuti.
Se il nuovo corso non prevede critiche, figurarsi se prevede autocritiche. Il voto del 13 e 14 aprile ha lasciato il Pd al 33,1 per cento, consegnato a Silvio Berlusconi la più solida maggioranza di sempre, ridotto all’impotenza l’Udc, cancellato la Sinistra arcobaleno. Quello che esce dalle urne è il parlamento più a destra nella storia della Repubblica. Grazie al voto utile, il Pd ha raccolto buona parte del 7 per cento perduto in appena due anni dalla Sinistra arcobaleno, eppure ha guadagnato soltanto l’1,9 rispetto al 2006 (e avendo nelle sue liste i Radicali, questa volta). La verità è che il Partito democratico non solo non ha sfondato al centro, non ha compiuto alcuna rimonta, non ha strappato al Pdl nemmeno un decimale di punto (e non è mai stato, sia detto per inciso, a “due punti di distacco” dall’avversario). La verità è che è accaduto l’esatto contrario: è il Pdl che ha strappato consensi al Pd, sfondando al centro ed espellendone l’avversario (che ha compensato le perdite a spese della Sinistra arcobaleno). Eppure, nell’intervista all’Unità, l’unica conclusione che Veltroni trae dall’esito del voto è questa: “Non si torna indietro. Strategia, scelte programmatiche e linguaggio sono giusti”.
Quanto la disfatta subita sia da addebitare all’esperienza del governo Prodi e quanto alle scelte di Veltroni, naturalmente, può e deve essere oggetto di una discussione approfondita (e magari, per l’occasione, si potrebbe discutere pure delle rispettive responsabilità nella caduta dell’esecutivo). Certo è che dopo i ballottaggi, quale che sia il risultato, una simile discussione non sarà più rinviabile. E dovrà essere approfondita, serena, pluralistica – certamente – ma anche libera. Libera, innanzi tutto, dall’asfissiante cappa di conformismo che sin qui ha caratterizzato la dialettica interna ed esterna al Pd, ben oltre la misura che le difficoltà del governo prima e la campagna elettorale poi avrebbero giustificato.
Quello che proprio non si può fare è negare l’evidenza. Continuare a raccontarsi la favola della grande rimonta e del successo oltre ogni previsione. La campagna elettorale è finita. E non sarà arrotondandosi il risultato dello 0,9 – come fa Veltroni sostenendo che il “primo dato” da considerare è che “abbiamo un partito riformista del 34 per cento” – o sostenendo che il raffronto non va fatto con le politiche del 2006, bensì con le provinciali del 2007, che si costruiranno le fondamenta di un roseo avvenire.
Terminati i ballottaggi, definitivamente chiusa questa interminabile campagna elettorale, non ci saranno più alibi. Scriviamo di proposito prima di conoscere il risultato del voto nella capitale, augurandoci che Francesco Rutelli vinca. Ma sentire da Veltroni che l’eventuale sconfitta in Campidoglio non è da addebitare a lui perché non è lui il candidato sindaco – dopo avergli sentito ripetere per tutta l’intervista che la sconfitta alle politiche è da addebitare al governo guidato da Romano Prodi, che non ci risulta fosse il candidato premier – lascia molto, ma molto perplessi. Ed è addirittura scandaloso che Veltroni metta tra le principali colpe dell’ex premier persino l’indulto, dopo avere partecipato alle manifestazioni per l’indulto e per l’amnistia. Un comportamento che ricorda quello di John Belushi in Animal House, quando va a consolare il ragazzo in lacrime dinanzi all’automobile che gli amici hanno ridotta un rottame, gli mette una mano sulla spalla, lo guarda negli occhi e gli dice: “Vedi, hai commesso un errore. Ti sei fidato di noi”. Proprio così: ti sei fidato di noi. Come l’inno del Pd.
La verità è che la leadership veltroniana si è tradotta sin qui in una sorta di centralismo carismatico, o forse dovremmo dire di cesarismo burocratico, capace di sommare in sé i peggiori vizi dei vecchi partiti comunisti e dei nuovi partiti personali modello Forza Italia (o Italia dei Valori, che è lo stesso). Dunque non deve stupire che alla scelta di andare da soli, proprio come nel 2001, seguano ora la chiusura identitaria e la lotta contro il regime. “Ho chiesto a molti colleghi stranieri – dice Veltroni – cosa sarebbe successo se nel loro paese un candidato avesse eletto a eroe un mafioso. Mi hanno risposto dicendo che sarebbe una cosa incompatibile con qualsiasi carica pubblica. In Italia invece questo è possibile”. Finita la nuova stagione, si torna ai girotondi. E anche più indietro, fino agli avanzi scaduti del vecchio Pci post-berlingueriano. Per dirla con le parole di Veltroni, si torna alla lotta contro “la volgarizzazione della società, la spietata individualizzazione, il genocidio di ogni idea di regola e di spirito pubblico”. Ma la strada della chiusura identitaria e del culto della propria diversità, che non ha funzionato nemmeno con Enrico Berlinguer, suona semplicemente grottesca se ripercorsa oggi, assieme a Massimo Calearo.
La verità è che non si può annunciare un partito democratico, aperto e radicato, se in quello stesso partito nessuno – nemmeno la realtà – ha diritto di mettere in discussione la parola, le scelte e i risultati del leader. E questa non è una critica a Veltroni.