Alla shadow victory, giustamente, segue uno shadow cabinet. A una campagna elettorale in cui il partito è stato ridotto all’ombra del candidato premier, segue una segreteria nominata direttamente dall’ombra di un leader politico: un segretario fantasma che presenta il nuovo organigramma in conferenza stampa, senza nemmeno fingere di sottoporlo prima alla direzione, già convocata per questa settimana. Inutile domandarsi di cosa mai si dovrà discutere, a questo punto, nella direzione di un Partito democratico che della democrazia interna, evidentemente, non ha più neanche l’ombra. E magari nei famosi coordinamenti regionali, e nelle federazioni provinciali, e nei circoli.
Forse bisognerebbe partire da un fatto, semplice e incontrovertibile, perché puramente aritmetico: mai, in tutta la storia repubblicana, l’intero arco delle forze di sinistra, centrosinistra, progressiste, democratiche o cattolico-democratiche – unite in coalizione o divise che fossero – mai, prima d’ora, quelle forze avevano subito una simile sconfitta. Il risultato delle ultime elezioni consegna al centrodestra una maggioranza parlamentare schiacciante. E quella maggioranza non è il frutto di un artificio, ma lo specchio fedele di una larghissima maggioranza conquistata nel paese, la più larga di sempre. Specularmente, e inevitabilmente, alle ultime elezioni le forze di centrosinistra hanno raggiunto il loro minimo storico.
Smaltita l’ubriacatura di una cattiva propaganda, usciti dai paradisi artificiali di sondaggi e articoli di giornale tagliati male – e spesso ad arte – da pessimi spacciatori, è dunque venuto il momento di tornare alla realtà. E tornare alla realtà significa ripartire da qui, dall’Italia com’è e come il voto ce la rappresenta, cosa che qualsiasi gruppo dirigente degno di questo nome avrebbe già iniziato a fare. Perché non serve certo uno studio comparato sull’analisi dei flussi per capire che si tratta di una sconfitta che chiama in causa l’intero gruppo dirigente. Sostenere che tutto si spieghi semplicemente con le responsabilità di Romano Prodi e del suo governo, oppure con gli errori compiuti da Walter Veltroni in campagna elettorale, non è solo ugualmente inutile e incomprensibile. E’ dannoso.
Il problema è che la linea della shadow victory ha prodotto l’impazzimento dell’intero dibattito dentro e attorno al Partito democratico. Il leader che doveva lanciare la nuova stagione del partito leggero e all’americana, senza correnti e senza tessere, annuncia ora solennemente l’apertura del tesseramento e la costruzione di un partito fondato sul radicamento territoriale, per poi nominarne il vertice con un giro di telefonate tra veri o presunti capicorrente, o vicecapi, o presunti vice. E tutto al solo fine di evitare una libera discussione sull’esito del voto che il segretario – perfettamente consapevole di non avere vinto, né pareggiato, né “perso bene”, non avendo voluto nemmeno giocare la partita – teme ora come il giudizio universale.
Il risultato così ottenuto da Veltroni è sommamente paradossale. Avrebbe potuto avviare lui una discussione libera e approfondita sulla sconfitta, chiamando le cose con il loro nome e richiamando ciascuno alle proprie responsabilità. E nessuno, nel suo partito, avrebbe potuto legittimamente alzarsi e dire: “Io non c’entro”. E invece ha pensato solo a come trovare un accordo con le diverse correnti nella divisione degli incarichi parlamentari e di partito. Per cogliere l’aspetto paradossale di una simile mossa basta scorrerne l’elenco, con tutte le diverse correnti della Margherita nelle posizioni centrali – i popolari su tutti – e i veltroniani degradati a ruoli poco più che onorari. Il paradosso è che in questo modo Veltroni si è assunto la responsabilità di una gestione antidemocratica del partito di cui non ha nemmeno goduto i vantaggi, ma di cui sarà il solo a pagare il prezzo. Un prezzo che si rivelerà tanto più alto quanto più se ne sarà differito il pagamento, quando infine la discussione che si è voluto espellere dagli organismi nei quali avrebbe potuto essere incanalata, elaborata e risolta senza crisi di nervi e senza capri espiatori, com’è inevitabile che sia, tracimerà e si rovescerà su un partito a quel punto non più attrezzato, né preparato, né legittimato a fronteggiarla.