Su New Republic è apparso in questi giorni un importante articolo dal titolo inequivocabile: “The Stupidity of Dignity”. L’autore, Stephen Pinker, insegna psicologia a Harvard ed è uno dei più ascoltati scienziati cognitivisti contemporanei, noto al pubblico italiano per alcuni libri di grande successo, come “L’istinto del linguaggio” o, più di recente, “Tabula rasa”. Oratore brillante, è anche autore di una produzione pubblicistica imponente, che trova spazio sui maggiori quotidiani americani. Il suo ultimo studio, “The Stuff of Thought”, è stato recensito sul New York Times.
L’articolo di Pinker contiene un’approfondita disamina del rapporto, “Human Dignity and Bioethics” (scaricabile qui), trasmesso a George W. Bush dal President’s Council on Bioethics, l’equivalente del nostro Consiglio nazionale di bioetica.
Il rapporto presta il fianco a critiche fin dalla sua composizione: sono assenti contributi di psicologi, antropologi o sociologi. Se poi uno pensa che tre quarti dei suoi membri hanno legami con istituzioni o associazioni a carattere religioso, si convince facilmente che i giochi siano già fatti, prima ancora di leggere il voluminoso dossier. Ma non è su questi aspetti che intendo soffermarmi, quanto piuttosto sul merito della critica portata dall’illustre scienziato al concetto di dignità umana, posto al centro degli sforzi teorici del Consiglio.
Siamo tutti abbastanza persuasi, infatti, che esista qualcosa come una dignità umana e che essa vada rispettata. Su tale rispetto, crediamo poi che si fondino i diritti fondamentali dell’uomo, ed è a un tale rispetto che i membri del consiglio sembrano voler affidare la difesa dell’umanità dell’uomo dalle sempre più inquietanti prospettive aperte dal progresso scientifico e tecnologico. Ma anche se tali prospettive non fossero inquietanti, in accordo con la vecchia idea kantiana secondo la quale le cose hanno un prezzo ma solo l’uomo ha una dignità, il general feeling alla base del rapporto sembra essere che neppure miglioramenti sensibili della vita e della salute dell’uomo possano essere eticamente approvati, se il prezzo è un’offesa o comunque una diminuzione della dignità umana.
Pinker, però, non è di questo avviso. Non perché ritenga che la dignità umana possa essere impunemente calpestata, ma perché dubita della tenuta semantica del concetto. D’altronde, chiamati a rispondere alla domanda: che cos’è precisamente the human dignity, gli esperti convocati a consiglio non hanno saputo portare alla chiarezza di una definizione il concetto in questione. Ovviamente, una definizione può essere fornita, ma è assai dubbio che essa possa funzionare: che cioè riesca nell’intento di discriminare in tutti i casi rilevanti ciò che appartiene obiettivamente alla dignità umana e ciò che invece non vi appartiene.
Pinker non ha quindi nessuna difficoltà a dimostrare che la dignità è un concetto relativo, storicamente e culturalmente determinato. A taluno parrà che la sua dignità è offesa da qualunque genere di maltrattamento, a talaltro anche solo da un abito liso, o da uno sberleffo. Leon Kass, primo presidente del Consiglio, tra gli autori di questo rapporto, considera abbastanza inaccettabile mangiare più o meno voluttuosamente un gelato in pubblico, mentre a Massimo Troisi pareva che la sua dignità fosse violata dallo sguardo volubile della compagna intenta sulla porta del bagno a chiacchierare: senza la porta chiusa, gli era impedita la minzione (il primo esempio è di Pinker, il secondo no, ma è un omaggio alle sue caratteristiche scelte di esempi, e anche a un bel film). Alla relatività Pinker aggiunge la fungibilità e la pericolosità. La fungibilità, anzitutto. Esplorazioni rettali digitali sono abbastanza undignified, eppure siamo soliti, all’uopo, affrontarle (esempio di Pinker). Quanto alla pericolosità, si pensi al burqa: spesso “il totalitarismo è l’imposizione della concezione della dignità di qualche guida a un’intera popolazione”.
Il punto più qualificante della critica di Pinker non è però la dimostrazione che il concetto di dignità è relativo, fungibile o persino pericoloso; ma il passo successivo, con cui si dimostra che la stessa prestazione che si vuole affidare a questo concetto, in termini di principi giuridici e morali da fondare sopra di esso, risulta assai meglio giustificata sulla base del concetto di autonomia dell’individuo, che è molto meno esposto alla relatività storico-culturale dei punti di vista, oltre che meno pericoloso. Come afferma la bioeticista Ruth Macklin, una volta ammesso il principio dell’autonomia dell’uomo, la dignità non aggiunge nulla. In tutti i casi in cui noi vorremmo fermare la mano dell’uomo sull’uomo, per proteggerlo da offese fisiche o morali, riusciremmo meglio nel nostro intento affidandoci all’assai meno contestato principio di autonomia. Alla fin fine, “si tratta sempre del modo in cui ciascuno desidera essere trattato”.
Proprio per questo, però, qualche dubbio rimane. Anzitutto nel modo in cui vanno trattate le persone che si ritiene non siano in condizione di esercitare in autonomia le scelte circa il trattamento da riservare loro. Per esempio i bambini o certi tipi di malati. È difficile, affidandosi al solo principio di autonomia, rispettare sempre, in costoro, la loro dignità. C’è poi almeno un altro caso difficile, quello delle persone la cui autonomia è stata ridotta in forza della legge: un carcerato ha certo diritto a un trattamento umano, rispettoso della sua dignità, ma non può esercitare autonomamente la scelta del trattamento: non, almeno, alla pari di un uomo libero. E ad esempio la tortura non sembra ledere l’autonomia dell’ergastolano tanto quanto lede la sua dignità.
Forse non c’è bisogno neppure di pensare a casi così estremi. Nel nostro attuale ordinamento giuridico, la legge può dichiarare nulli ab initio contratti privati che siano lesivi dei diritti fondamentali dei contraenti, anche qualora siano stati stipulati in piena autonomia. Il che tra l’altro vuol dire che la tutela della legge ha forza maggiore di quella riposta nei soli diritti individuali. A molti, e tra i molti io stesso, questa sembra una conquista di civiltà, benché sia, come ogni cosa, contestabile: chi ad esempio anteponesse l’autonomia individuale a ogni altro valore, troverebbe ingiustificata la limitazione del diritto soggettivo di ciascuno di darsi in schiavitù. Pinker in realtà prevede il caso della volontaria rinuncia alla propria dignità, ma si preoccupa solamente delle “esternalità negative” di simili comportamenti: fare violenza al proprio corpo potrebbe per esempio indurre per imitazione comportamenti analoghi. Ora, posto pure che ci si debba preoccupare soltanto delle conseguenze, Pinker si limita a concedere leggi restrittive solo se fossero empiricamente dimostrati effetti nocivi, ma è chiaro che il suo punto di vista non giustifica una simile concessione. Cosa infatti c’è di male se altri, a causa del cattivo esempio, tengono comportamenti autolesionisti, dal momento che a loro volta agiscono in piena autonomia?
Forse c’è qualcosa che non va nel solo (questo “solo” è importante) principio di autonomia. Forse, il concetto di dignità non è così stupido come può sembrare. D’altra parte, come dimostra in definitiva la sua stupidità (sua del concetto, non sua di lui, ci mancherebbe), Pinker? Invitando a distinguere. Quanti infatti sentono il bisogno di mettere, grazie al concetto di dignità, un punto di arresto alle avventure tecnoscientifiche del nostro tempo, sono soliti confondere frettolosamente la clonazione con la resurrezione dei morti, la longevità con l’immortalità, lo screening di eventuali malattie genetiche con il designer babies e ogni sorta di neospeciazione. Insomma: un progressivo miglioramento con l’utopica perfezione. Spaventati, scambiano la parte per il tutto, la via per la mèta, e prendono piccoli e sempre relativi (e sempre faticosi) progressi marginali per l’inarrestabile fuga di un treno in corsa a folle velocità verso la fine dell’uomo.
Allo stesso modo, però, le limitazioni del principio di autonomia in base alla dignità umana (che, è bene saperlo, sono già in mezzo a noi; ma sono naturalmente ben circoscritte, e fra l’altro giustificano l’esistenza di uno spazio pubblico che non potrebbe esistere sulla base della sola autonomia individuale) non autorizzano a concludere che, per questa china, è aperta la strada alle più arbitrarie soppressioni dei diritti di libertà degli individui. Il fatto è che né la dignità né l’autonomia sono stupide di per sé, ma è stupido credere che dimostrare la realtività di un concetto o di un principio equivalga a dimostrare la sua arbitrarietà. E su questo, cioè nella preoccupante incapacità di riconoscere la verità del relativo, c’è il rischio che, nonostante il suo palpabile fastidio per la bioetica cattolica, Pinker finisca col pensarla esattamente come Joseph Ratzinger.