Com’è a tutti noto, tra rifiuti, salari e immigrazione, il cardinale Angelo Bagnasco, aprendo i lavori dell’assemblea generale della Cei, ha trovato anche il tempo di parlare di eugenetica. Rimproverando il ministro Turco per le nuove linee guida alla legge sulla procreazione assistita (che a differenza delle precedenti aprono alla diagnosi preimpianto) ha osservato che questo provvedimento “comporta oggettivamente il rischio di promuovere una mentalità eugenetica, inaccettabile ieri al pari di oggi”. Che cosa sia stata l’eugenetica, ahinoi, lo sappiamo bene: solo nella Germania nazista sono state più di 300 mila le persone sterilizzate in nome del “perfezionamento della specie”. Per questo, quando oggi si parla di eugenetica, l’inghippo sta proprio lì, nella storia che questa parola si porta dietro, rendendo puntualmente fallimentare ogni tentativo di cogliere delle discontinuità. Impresa, sia chiaro, nient’affatto semplice se la stessa Livia Turco, in un’intervista al Corriere della Sera del 27 Maggio, ha addirittura avanzato la proposta di definire per legge cosa debba esattamente intendersi per eugenetica.
Ma cos’è, appunto, l’eugenetica? E, in particolare, la diagnosi preimpianto è o no un caso di eugenetica? Un collegamento diretto tra ogni sorta di selezione embrionale e le passate pratiche eugenetiche appare fuorviante. Come è noto, l’eugenetica è stata essenzialmente uno strumento nelle mani del potere statale, che ne ha espresso, sulla base delle “tecnologie” e delle ideologie dell’epoca, tutto il devastante esito discriminatorio e disumanizzante. Oggi le cose sono molto cambiate e se si vuole davvero fare i conti con le cose in questione occorre prenderne atto. Tanto per cominciare, qui non è in gioco alcuna imposizione o interferenza del potere statale nella scelta privata del singolo. Certo, anche in questo caso siamo di fronte ad un fenomeno di razionalizzazione del “dono” della nascita, ma una volta assodato che con la modernità la natura cessa in modo irreversibile di parlare il linguaggio vincolante del nomos, non è certo la trasfigurazione tecnica di un fenomeno naturale a poter costituire fonte di un divieto morale e, men che meno, giuridico. Difatti, la riconosciuta ripugnanza morale della vecchia eugenetica non sta nel tentativo di razionalizzare il fenomeno naturale della nascita, quanto piuttosto nella strumentalizzazione e nell’assoggettamento dei più elementari diritti degli individui (libertà personale, integrità psico-fisica e indisponibilità del corpo) a malintesi beni superiori: la salute pubblica, l’ordine sociale, l’efficienza economica. Ma quando si vieta “ogni diagnosi preimpianto a finalità eugenetica” ci si limita a questo?
Nel caso di una coppia portatrice di patologie genetiche che voglia conoscere lo stato di salute degli embrioni per decidere, eventualmente, di non impiantare quello malato, che senso attribuire alla scelta selettiva? Quello di selezionare figli migliori per irrobustire il capitale umano della nazione e, in prospettiva, della specie? Oppure quello di rispondere alla necessità di tutelare la salute psico-fisica della donna? Ecco che già emerge un dato importante: l’impossibilità di attribuire alla scelta selettiva un senso univoco. La discriminante non sta nell’atto in sé, ma nel modo in cui noi, autonomi “stranieri morali”, possiamo, caso per caso, decidere di valutarlo.
Il divieto assoluto di diagnosi preimpianto giustificato dal rischio di una finalità eugenetica, è allora una scelta che presuppone una precisa opzione morale, quella dell’inviolabilità dell’embrione in quanto persona fin dal concepimento. Solo in questa ottica, infatti, diventa comprensibile l’associazione diretta tra diagnosi preimpianto ed eugenetica. Ma se si muta il paradigma etico di riferimento, cioè se l’embrione non è più considerato persona e se la scelta rimane esclusivamente circoscritta all’esigenza di tutelare la salute della futura madre, non c’è più ragione affinché si parli di eugenetica; almeno non nei termini, allarmati e allarmanti, con cui se ne parla. Sostanzialmente per tre ragioni: 1) manca la volontà di subordinare la scelta procreativa all’esclusivo benessere del corpo sociale; 2) manca la volontà di soddisfare un ipotetico standard di salute della futura persona; 3) la legittimazione morale della selezione sta nella necessità di salvaguardare la salute della donna e non nella mera stigmatizzazione del soggetto nascente. Pertanto, secondo la concezione morale per cui la vita embrionale umana non è vita personale, si danno, in determinate condizioni, dei margini che rendono ammissibile la selezione di forme di vita umana (gli embrioni), senza che questi margini possano tuttavia essere fatti coincidere, sic et simpliciter, con quelli tracciati dalla terribile storia dell’eugenetica.
Quale (bio)etica, allora, per un’etica pubblica? Molte risposte possono essere date, ma l’unica cosa che si può affermare con sicurezza è che dovrebbe essere una (bio)etica sensibile alle discontinuità.