Fino a qualche tempo fa, i pochi che ancora invitavano a non dare per scontata la profezia sulla progressiva e irreversibile perdita di ruolo degli stati sovrani tendevano a essere guardati come degli inguaribili passatisti, incapaci di comprendere la realtà del nuovo mondo globale. Questo avveniva sia nel campo degli studi giuridici, economici o politologici, sia nel dibattito pubblico.
Oggi, improvvisamente, sembra di vivere in un altro mondo. La crisi finanziaria che ha investito soprattutto Stati Uniti e Gran Bretagna, fino a ieri indicati come gli esempi da imitare nella competizione globale, e il ruolo decisivo esercitato dai poteri pubblici, per evitare che il fallimento di alcune grandi banche e assicurazioni innescasse un catastrofico effetto domino, hanno indotto anche molti economisti legati all’ortodossia liberista a riconoscere che la lunga fase aperta negli anni Ottanta da Reagan e dalla Thatcher («Lo Stato non è la soluzione dei problemi, lo Stato è il problema») si è definitivamente chiusa.
Ma in quel che è accaduto negli ultimi mesi vi è qualcosa di più dei pur sorprendenti fenomeni economici a cui abbiamo assistito, come il ritorno alle nazionalizzazioni e l’interruzione di un boom finanziario che, con le sue aspettative di crescita illimitata, sembrava destinato a mandare in soffitta le tradizionali teorie del ciclo economico. Non si tratta cioè semplicemente della fine di una fase di espansione e del carattere delle misure anti-congiunturali adottate, che (come peraltro è accaduto altre volte in passato anche negli Stati Uniti) fanno ricorso a un maggiore interventismo pubblico.
Il significato più profondo di ciò è accaduto sta proprio nel ritorno dell’idea che siamo ancora entro la successione classica dei cicli economici e politici, ossia che nell’ultimo ventennio non si è aperta alcuna epoca completamente nuova, la cosiddetta “epoca globale”, caratterizzata da una radicale discontinuità rispetto alle categorie politiche ed economiche della modernità.
In altre parole, al di là della resurrezione del keynesismo, la più grave crisi finanziaria dell’Occidente dopo il 1929 può essere letta come la fine del post-moderno sul piano politico-economico. In realtà, più che di fine del post-moderno, bisognerebbe parlare di crisi delle teorie del post-moderno, visto che una nuova epoca non è mai iniziata.
Questo non vuol dire certo che la politica e l’economia non siano cambiate in questi decenni. Si è rivelata però sbagliata l’idea che l’ondata di globalizzazione successiva alla fine della guerra fredda fosse destinata a provocare il definitivo tramonto della principale invenzione della modernità politica, lo Stato. E con lo Stato moderno, secondo le teorie politiche ed economiche del post-moderno, era naturalmente destinata a inabissarsi anche la sovranità politica su base democratica, che ha rappresentato l’esito ultimo della sua evoluzione e che da esso non può essere disgiunta.
Oggi appare abbastanza evidente come questo paradigma interpretativo e i copiosi filoni di studio che esso ha generato (governance, diritto post-sovrano, lex mercatoria, post-democrazia) siano stati pienamente funzionali al lungo ciclo egemonico di un’ideologia neo-liberista, capace di imporre la propria supremazia incontrastata anche grazie alla capacità di negare il proprio carattere ideologico e di affermare nel dibattito pubblico la tesi del definitivo superamento di tutte le ideologie.
Quel che sorprende è come la riflessione della sinistra europea e italiana, in quasi tutte le sue varianti, sia stata a lungo intellettualmente subalterna a questo paradigma del post-moderno. Anche quanti hanno contestato, da posizioni di sinistra radicale, la “dittatura del pensiero unico”, quasi mai hanno messo in discussione il dogma del tramonto irreversibile dello Stato e della sovranità politica, rimanendo così, senza accorgersene, intrappolati all’interno dello stesso paradigma.
Non meno sorprendente è che, sul piano politico, in Europa siano stati esponenti conservatori (Tremonti, Sarkozy, Merkel) a segnalare con più energia la necessità di una ripresa del ruolo dello Stato e dei poteri pubblici di fronte all’incipiente crisi finanziaria. Si può certo nutrire qualche dubbio sulla credibilità e la coerenza rispetto al passato di alcune di queste prese di posizione. Sarebbe però forse meglio iniziare a chiedersi se le difficoltà elettorali e programmatiche della sinistra in tutti i maggiori paesi europei non derivino anche dal ritardo nel leggere il significato di questo cambio di fase e nel liberarsi dalla subalternità culturale rispetto all’apparato ideologico del post-moderno.
Oppure chiedersi, venendo al centro-sinistra italiano, se la discussione sul federalismo, dopo un quindicennio di posizioni per lo più difensive e strumentali, possa essere affrontata ancora come se nel mondo non fosse successo nulla. Il tramonto delle illusioni post-moderne non implica il ritorno automatico a una vecchia dogmatica statalista e interventista in campo economico. Lo Stato non tornerà certo a «fare i panettoni» (come si diceva a proposito della vecchia Iri), ma questa crisi insegna che, anche quando in futuro il pendolo tornerà a muoversi verso politiche più liberiste, le economie più sviluppate dell’Occidente non possono fare a meno di sovranità politiche di dimensione almeno statuale, in grado di assicurare una cornice di regole dotate di effettività, unità di indirizzo su alcune materie fondamentali e possibilità di intervento diretto in caso di crisi. La stessa invocazione di poteri più incisivi da attribuire alle istituzioni internazionali rischia di apparire paradossale in un paese che rischia di frammentare ulteriormente la capacità di direzione politico-economica in capo alla sovranità democratica. Quella sovranità democratica che finora in nessuna parte del mondo si è riusciti davvero a disgiungere dalla forma dello Stato moderno.